lunedì 8 luglio 2013

Le 52 Gallerie per il Pasubio




Il Monte Pasubio si trova tra le province di Vicenza e Trento, a un tiro di schioppo dall’Altopiano di Asiago e forse anche dal Lago di Garda.
Appunto, un tiro di schioppo.
L’idea di andare da quelle parti per passare una giornata all’aria buona e a muovere bene i muscoli è nata dalla curiosità di sapere qualcosa di più di Oberdan, Guglielmo, morto impiccato a 24 anni in una caserma di Trieste al grido “Evviva l’Italia! Evviva Trieste libera!”, episodio letto e assorbito ne La Patria, bene o male.
Ed io a 24 anni cosa stavo facendo? Quali idee mi passavano per la testa?
Clicco qua e là, giacché l’enciclopedia non è a mia disposizione, e trovo diverse informazioni, e mi accorgo che “ovviamente” a lui sono state dedicate vie, piazze, monumenti. E quant’altro, appunto, una galleria.
Ho messo le virgolette a ovviamente solo perché, a guardarci bene, noi da questa parte lo vediamo come martire e patriota, mentre di là lo vedono o lo hanno visto come disertore e traditore.
Ai tempi dell’episodio le terre del nord est erano combattute da un’Italia appena Unita e un’Austria-Ungheria con voglie espansive. Non certo una situazione comoda.
E’ come se oggi un giovane di Ventimiglia fosse chiamato alle armi dal Principato di Monaco, lui che si sente italiano in tutto il sangue, potrebbe mai andare a imbracciare i fucili del Principato? Si fa per dire, o scrivere, “ovviamente”.
Ecco dunque, ai miei occhi appare la scritta la quinta galleria della Strada delle 52 Gallerie… ed io là in quella strada ci voglio andare appena possibile. Propongo la gita, che gita non è, ricevo risposte entusiaste, addirittura per il giorno dopo. Ecco, allora, che presto ci siamo andati, dieci giorni e la cosa è organizzata, e come ci siamo detti più di una volta, e come capita spesso nei giorni delle nostre vite, le robe vanno fatte subito, appena possibile, senza perdere troppo tempo, il chiodo va battuto finché è caldo, altrimenti, sempre, alla fine non si combina niente.
E ne ho le prove sulla mia pelle, e anche sotto, un po’ più dentro, dalle parti di farfalle particolari.

Si parte all’ora prevista, anche se con dieci minuti di ritardo, mai rinfacciati, no no…
La mia nottata col canarino in bocca non aiuta il mio primo umore mattiniero, ma sono presente, riesco quindi a evitare chiamate notturne allarmanti, il mal di pancia scema via con tanti ruttini nella notte del borgo.
Il viaggio è chiacchierato, semplice con l’autostrada per Padova e per Vicenza e per Piovene Rocchette.
Giunti finalmente ad Arsiero ci si ferma per il pit-stop, il caffè, le gambe sgranchite, e quello che serve al bagno del bar. Poi ci arrampichiamo verso Posina, e da lì la strada stretta al Passo Xomo. E Mauro non trova ancora la fontana con l’acqua di montagna da mettere in borraccia. Userà altro. E che ridere.
Arrivati a Bocchetta Campiglia, alle 8.45 circa, in orario per noi, ci accorgiamo, come sospettavo in silenzio, che non siamo certo da soli, che il sabato non è adatto per andare in silenzio in certi sentieri tanto importanti, che nel parcheggio gratuito le auto sono parcheggiate anche sulle staccionate e che siamo costretti a quello a pagamento: 5 euro per lasciare l’auto al sole tutto il giorno in culo al mondo a me pare troppo, ma da qualche parte ci sarà un perché (serviranno per mantenere in ordine queste dolomiti tanto importanti o per riempire le tasche di pochi? Mah…)
Scarponi, zaini, bastoni, berretti (quasi), acqua (a volte gassata), e frontale (solo per uno).
Si parte carichi come i bimbi sulla giostra appena arrivata in paese. Io chiedo silenzio per quanto possibile, e lo farò per tutto il tempo, anche se so che non si può stare in silenzio quando si è in compagnia, so anche che ci sono momenti e momenti, e toni e volumi e modi che tanti non s’immaginano nemmeno. Peccato.



Il Pasubio è stato teatro di trincee nella Grande Guerra, e noi stiamo camminando sulla storia.





Nel 1917 in nove mesi vari gruppi dell’esercito, del Genio, e di minatori, e centurie di lavoratori, costruirono la strada che è un vero e proprio capolavoro d'ingegneria militare, e non. Sfiderei chiunque a costruire una roba così oggi, o solo a pensare di farla lì in quei luoghi. Mi prostro davanti a tanto lavoro, e in quelle condizioni. Noi oggi camminiamo con scarponi tecnici più o meno in goretex, con bastoni ammortizzati, borracce in alluminio, con lampade elettriche, con zaini quasi indistruttibili, con tutta la calma del nostro tempo.





Ma allora, cosa voleva dire allora minare la montagna per forarla in gallerie? E che gallerie, più o meno lunghe, ce ne sono delle impressionanti. Buie, certo, ma con curve e controcurve, con tornanti e con avviluppamenti a elica o cavatappi o coclea (si fa per ridere), che ti risputano fuori in un punto della montagna che proprio non ti aspetti.



E te non puoi che proseguire, con i tuoi passi, con le tue meraviglie negli occhi e con i pensieri indietro di un secolo.





Lassù dove fermeremo finalmente al Rifugio Papa (Gen.), troveremo trincee, troveremo il Dente Italiano e il Dente Austriaco, dalle cui pendici e fenditure uomini d’altri tempi si sparavano per spostare un po’ più su o in po’ più in giù quel confine che altri nei palazzi dei poteri si bisticciavano tipo a risiko. O qualcosa del genere.
Noi, liberi nella nostra libertà, nella democrazia di oggi, scegliamo di non percorrerla tutta.
A un certo punto, presi da stanchezza, o voglia di cambiare il paesaggio, o presi dalle vertigini, cambiamo sentiero e cerchiamo di raggiungere il nostro pranzo dalla parte nord est dell’ultima cima prima delle Porte del Pasubio.




E mi accorgo di due robe, già pensate in precedenza: tra noi c’è il Fuggiasco, c’è lo Sfatto, e c’è pure il Tracciatore, e ne fornirà prova nel pomeriggio durante il rientro all’auto.



Come previsto al Rifugio troviamo dieci-centomila persone. Siamo fortunati perché troviamo subito da sedere, ordiniamo, ci cambiamo la maglietta, che subito mangiamo: gulasch e patate e polenta, poca acqua e molto vino rosso buonissimo fin troppo. Le gambe chiederanno pietà non solo per la discesa continua e per le stanchezze di tutto il corpo…

All’uscita la temperatura non è tanto alta, il cielo è grigio come da previsioni, al contrario del mattino. Qualche giorno dopo scoprirò che il venerdì precedente le panche del rifugio erano ancora ricoperte dalla neve che si scioglieva. Tant’è, giusto in tempo…
Il Fuggiasco chiede a un ragazzo di scattarci una foto con sfondo il panorama dal rifugio. E’ l’unica foto scura non a fuoco scolorita e non a centro. Tra i milioni di persone lì presenti ha scelto, senza offesa ci mancherebbe, l’unico ragazzo strabico con problemi evidenti di vista e forse di cognizione di se stesso. Pazienza.
Lui, il Fuggiasco, è fatto così, e così lo teniamo. Lo Sfatto tentenna e il Tracciatore trascina gli altri verso basso, quindi si evita di salire oltre, verso l’Arco romano e altri panorami sulla Guerra. Tra me e me mi prometto che un giorno ci andrò, con tutte le fatiche del caso.




Cominciamo il rientro sulla strada ben più larga e agevole di quella delle gallerie, ma anche più esposta alla bellicosità del nemico, e quindi si capisce un ulteriore perché delle 52 Gallerie.
Il tracciatore non ce la fa più e lascia la sua traccia, come spesso gli capita.

Il rientro è placato dalla stanchezza.
Mauro mi fa guidare tutta l’autostrada, che lui è stanco e rigetta il volante. Io lo prendo come un gioco, sdrammatizzando un po’, ma anche come un’iniezione importante di fiducia nei miei confronti, e non è da tutti i giorni.

Bene, anche questa è fatta. Alla prossima. Ma senza pensarci troppo, mi raccomando.

Quindi, il Tracciatore lo Sfatto e il Fuggiasco saranno ancora per sentieri. 
Ne sono certo.

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