Il Monte Pasubio si trova tra le province di
Vicenza e Trento, a un tiro di schioppo dall’Altopiano di Asiago e forse anche
dal Lago di Garda.
Appunto, un tiro di schioppo.
L’idea di andare da quelle parti per passare
una giornata all’aria buona e a muovere bene i muscoli è nata dalla curiosità
di sapere qualcosa di più di Oberdan, Guglielmo, morto impiccato a 24 anni in
una caserma di Trieste al grido “Evviva l’Italia! Evviva Trieste libera!”,
episodio letto e assorbito ne La Patria,
bene o male.
Ed io a 24 anni cosa stavo facendo? Quali
idee mi passavano per la testa?
Clicco qua e là, giacché l’enciclopedia non
è a mia disposizione, e trovo diverse informazioni, e mi accorgo che
“ovviamente” a lui sono state dedicate vie, piazze, monumenti. E quant’altro,
appunto, una galleria.
Ho messo le virgolette a ovviamente solo
perché, a guardarci bene, noi da questa parte lo vediamo come martire e
patriota, mentre di là lo vedono o lo hanno visto come disertore e traditore.
Ai tempi dell’episodio le terre del nord est
erano combattute da un’Italia appena Unita e un’Austria-Ungheria con voglie
espansive. Non certo una situazione comoda.
E’ come se oggi un giovane di Ventimiglia fosse
chiamato alle armi dal Principato di Monaco, lui che si sente italiano in tutto
il sangue, potrebbe mai andare a imbracciare i fucili del Principato? Si fa per
dire, o scrivere, “ovviamente”.
Ecco dunque, ai miei occhi appare la scritta
la quinta galleria della Strada delle 52
Gallerie… ed io là in quella strada ci voglio andare appena possibile. Propongo
la gita, che gita non è, ricevo risposte entusiaste, addirittura per il giorno
dopo. Ecco, allora, che presto ci siamo andati, dieci giorni e la cosa è
organizzata, e come ci siamo detti più di una volta, e come capita spesso nei
giorni delle nostre vite, le robe vanno fatte subito, appena possibile, senza
perdere troppo tempo, il chiodo va battuto finché è caldo, altrimenti, sempre,
alla fine non si combina niente.
E ne ho le prove sulla mia pelle, e anche
sotto, un po’ più dentro, dalle parti di farfalle particolari.
Si parte all’ora prevista, anche se con
dieci minuti di ritardo, mai rinfacciati, no no…
La mia nottata col canarino in bocca non
aiuta il mio primo umore mattiniero, ma sono presente, riesco quindi a evitare
chiamate notturne allarmanti, il mal di pancia scema via con tanti ruttini
nella notte del borgo.
Il viaggio è chiacchierato, semplice con
l’autostrada per Padova e per Vicenza e per Piovene Rocchette.
Giunti finalmente ad Arsiero ci si ferma per
il pit-stop, il caffè, le gambe sgranchite, e quello che serve al bagno del
bar. Poi ci arrampichiamo verso Posina, e da lì la strada stretta al Passo
Xomo. E Mauro non trova ancora la fontana con l’acqua di montagna da mettere in
borraccia. Userà altro. E che ridere.
Arrivati a Bocchetta Campiglia, alle 8.45
circa, in orario per noi, ci accorgiamo, come sospettavo in silenzio, che non
siamo certo da soli, che il sabato non è adatto per andare in silenzio in certi
sentieri tanto importanti, che nel parcheggio gratuito le auto sono
parcheggiate anche sulle staccionate e che siamo costretti a quello a
pagamento: 5 euro per lasciare l’auto al sole tutto il giorno in culo al mondo
a me pare troppo, ma da qualche parte ci sarà un perché (serviranno per
mantenere in ordine queste dolomiti tanto importanti o per riempire le tasche
di pochi? Mah…)
Scarponi, zaini, bastoni, berretti (quasi),
acqua (a volte gassata), e frontale (solo per uno).
Si parte carichi come i bimbi sulla giostra
appena arrivata in paese. Io chiedo silenzio per quanto possibile, e lo farò
per tutto il tempo, anche se so che non si può stare in silenzio quando si è in
compagnia, so anche che ci sono momenti e momenti, e toni e volumi e modi che
tanti non s’immaginano nemmeno. Peccato.
Il Pasubio è stato teatro di trincee nella
Grande Guerra, e noi stiamo camminando sulla storia.
Nel 1917 in nove mesi vari gruppi
dell’esercito, del Genio, e di minatori, e centurie di lavoratori, costruirono
la strada che è un vero e proprio capolavoro d'ingegneria militare, e non.
Sfiderei chiunque a costruire una roba così oggi, o solo a pensare di farla lì
in quei luoghi. Mi prostro davanti a tanto lavoro, e in quelle condizioni. Noi
oggi camminiamo con scarponi tecnici più o meno in goretex, con bastoni
ammortizzati, borracce in alluminio, con lampade elettriche, con zaini quasi
indistruttibili, con tutta la calma del nostro tempo.
Ma allora, cosa voleva dire allora minare la
montagna per forarla in gallerie? E che gallerie, più o meno lunghe, ce ne sono
delle impressionanti. Buie, certo, ma con curve e controcurve, con tornanti e
con avviluppamenti a elica o cavatappi o coclea (si fa per ridere), che ti risputano
fuori in un punto della montagna che proprio non ti aspetti.
E te non puoi che proseguire, con i tuoi
passi, con le tue meraviglie negli occhi e con i pensieri indietro di un
secolo.
Lassù dove fermeremo finalmente al Rifugio
Papa (Gen.), troveremo trincee, troveremo il Dente Italiano e il Dente Austriaco,
dalle cui pendici e fenditure uomini d’altri tempi si sparavano per spostare un
po’ più su o in po’ più in giù quel confine che altri nei palazzi dei poteri si
bisticciavano tipo a risiko. O qualcosa del genere.
Noi, liberi nella nostra libertà, nella
democrazia di oggi, scegliamo di non percorrerla tutta.
A un certo punto, presi da stanchezza, o
voglia di cambiare il paesaggio, o presi dalle vertigini, cambiamo sentiero e
cerchiamo di raggiungere il nostro pranzo dalla parte nord est dell’ultima cima
prima delle Porte del Pasubio.
E mi accorgo di due robe, già pensate in
precedenza: tra noi c’è il Fuggiasco, c’è lo Sfatto, e c’è pure
il Tracciatore, e ne fornirà prova nel pomeriggio durante il rientro
all’auto.
Come previsto al Rifugio troviamo
dieci-centomila persone. Siamo fortunati perché troviamo subito da sedere,
ordiniamo, ci cambiamo la maglietta, che subito mangiamo: gulasch e patate e
polenta, poca acqua e molto vino rosso buonissimo fin troppo. Le gambe
chiederanno pietà non solo per la discesa continua e per le stanchezze di tutto
il corpo…
All’uscita la temperatura non è tanto alta,
il cielo è grigio come da previsioni, al contrario del mattino. Qualche giorno
dopo scoprirò che il venerdì precedente le panche del rifugio erano ancora
ricoperte dalla neve che si scioglieva. Tant’è, giusto in tempo…
Il Fuggiasco chiede a un ragazzo di
scattarci una foto con sfondo il panorama dal rifugio. E’ l’unica foto scura
non a fuoco scolorita e non a centro. Tra i milioni di persone lì presenti ha
scelto, senza offesa ci mancherebbe, l’unico ragazzo strabico con problemi
evidenti di vista e forse di cognizione di se stesso. Pazienza.
Lui, il Fuggiasco, è fatto così, e così lo
teniamo. Lo Sfatto tentenna e il Tracciatore trascina gli altri verso basso,
quindi si evita di salire oltre, verso l’Arco romano e altri panorami sulla
Guerra. Tra me e me mi prometto che un giorno ci andrò, con tutte le fatiche
del caso.
Cominciamo il rientro sulla strada ben più
larga e agevole di quella delle gallerie, ma anche più esposta alla bellicosità
del nemico, e quindi si capisce un ulteriore perché delle 52 Gallerie.
Il tracciatore non ce la fa più e lascia la
sua traccia, come spesso gli capita.
Il rientro è placato dalla stanchezza.
Mauro mi fa guidare tutta l’autostrada, che
lui è stanco e rigetta il volante. Io lo prendo come un gioco, sdrammatizzando
un po’, ma anche come un’iniezione importante di fiducia nei miei confronti, e
non è da tutti i giorni.
Bene, anche questa è fatta. Alla prossima.
Ma senza pensarci troppo, mi raccomando.
Quindi, il Tracciatore lo Sfatto e il
Fuggiasco saranno ancora per sentieri.
Ne sono certo.
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