di
Michele Serra,
da
La Repubblica del 30/05/2012
(trovato
in rete, scaricato e archiviato il 26 giugno dello scorso anno, appunto)
(ho
inserito qualche a capo)
(e
qualche punteggiatura che la mia personale lettura sentiva urgente)
(e
un grassetto, a mandare giù ancora un po’ di magone)
“E
quanto è lontano, e chi sono, di quel lontano, gli abitanti sbalzati dalle loro
vite?
Si
misurano mentalmente le pianure o le montagne che ci separano dal sisma. Prima
ancora che computer e tivù comincino a sciorinare, in pochi minuti, le prime
immagini, le macerie, i dettagli, i volti spaventati, la nostra memoria
comincia a tracciare una mappa sfocata, eppure palpitante, di persone, di
piazze, di strade, di case. Una mappa che è al tempo stesso personale (ognuno
ha la sua) e oggettiva, perché è dall'intreccio fitto delle relazioni, dei
viaggi, delle piccole socialità che nasce l'immagine di un posto, di un popolo,
di una società.
Leggo
sul video Cavezzo e subito rivedo un casolare illuminato in mezzo ai campi in
una notte piena di lucciole, ci abitava e forse ci abita ancora un mio amico
autotrasportatore, Maurizio, non lo sento da una vita, cerco il suo numero sul
web, lo trovo, lo faccio ma un disco risponde che il numero è sconnesso.
A
Finale Emilia viveva, e forse vive ancora, la Elia, la magnifica badante che
accompagnò mia nonna alla sua fine. Era nata in montagna, nell'Appennino
modenese, faceva la pastora e governava le pecore, scendere nella pianura ricca
a fare l'infermiera era stato per lei, come per tanti italiani nella seconda
metà del Novecento, l'addio alla povertà, l'approdo alla sicurezza: ma ancora
raccontava con gli occhi lucidi di felicità di quando da ragazzina cavalcava a
pelo, galoppando sui pascoli alti.
Molti
degli odierni italiani di pianura hanno radici in montagna. L'Appennino ha
scaricato a valle, lungo tutta l'Emilia, un popolo intero di operai e di
impiegati. La sua popolazione, dal dopoguerra a oggi, è decimata: dove vivevano
in cento oggi vivono in dieci, come nelle Alpi di Nuto Revelli.
Andai
a trovarla a Finale, tanti anni fa, per il funerale di suo figlio, era estate e
l'afa stordiva. Le donne camminavano davanti e gli uomini dietro, si sa che i
maschi hanno meno dimestichezza con la morte. Non c'erano ancora i navigatori e
arrivai in ritardo, in quei posti è molto facile perdersi, le strade sono un
reticolo che inganna, è un pezzo di pianura padana aperto, arioso, disseminato
di paesi e cittadine, ma non ci sono città grandi a fare a punto di riferimento
(anche questo, penso, ha contributo a limitare il numero delle vittime).
Se
sei un forestiero e l'aria non è limpida, e non vedi l'Appennino che segna il
Sud e - più lontano - le Alpi che indicano il Nord, ti disorienti, non sai più
dove stai andando.
Forse
da nessun'altra parte la Pianura Padana appare altrettanto vasta e composita,
non si è lontani da Modena, da Bologna, da Mantova, da Ferrara, ma neppure si è
vicini.
Anche
per questo ogni paese ha forte identità: non è periferia di niente e di
nessuno.
Uno
di Finale Emilia è proprio di Finale Emilia, uno di Crevalcore proprio di
Crevalcore.
Crevalcore
è bellissima, è uno di quei posti italiani dei quali non si parla mai, una
delle tante pietre preziose che ignoriamo di possedere. La struttura è del
tredicesimo secolo, pianta quadrata, città fortificata. Ci andai molto tempo fa
per un dibattito, cose di comunisti emiliani, ex braccianti e operai che ora
facevano il deputato o il sindaco e discutevano di piani regolatori ma anche
del raccolto di fagiolini, facce comunque contadine con la cravatta allentata,
seguì vino rosso con grassa cucina modenese perché Crevalcore è ancora in
provincia di Bologna, l'ultimo lembo a nord-ovest, ma è a un passo da Modena, e
dunque tigelle con lardo e aglio.
Non
riesco a ritrovare, di quei posti, un solo ricordo che non sia amichevole,
socievole, conviviale.
Non
è vero che è la natura contadina, ci sono anche contadini diffidenti e
depressi.
È
piuttosto l'equilibrio fortunato, e raro, tra benessere individuale e vincoli
sociali, sono paesi di volontari di ambulanza e di guidatori di fuoriserie, di
bagordi in discoteca e di assistenza agli anziani.
La
parola "lavoro", da quelle parti, è diventata una specie di unità di
misura generale: li avrete sentiti anche voi, gli anziani, dire ai microfoni
dei tigì "mai visto un lavoro del genere", il lavoro cattivo del terremoto.
Come
fosse animato da uno scientifico malanimo contro il luogo, ha colpito
soprattutto i capannoni industriali, le chiese e i municipi.
E
quei portici, quei fantastici luoghi di mezzo tra aperto e chiuso, con le
botteghe e i caffè, che sfregio vederli offesi, ingombri di macerie e sporchi
di polvere.
Sono
stati colpiti, come in un bombardamento scellerato, tutti i luoghi
dell'identità e della socialità.
La
fabbrica e la piazza, che nell'Emilia rossa sono quanto resta (molto) di un
modello economico che ha prodotto meno danni che altrove.
Vorticoso
come in tutto il Nord, con qualche offesa all'ambiente come in tutto il Nord,
con qualche malessere (le droghe, lo smarrimento, la noia) come in tutto il
Nord, ma con una sua solidità, un suo equilibrio, una ripartizione intelligente
tra industria e agricoltura, tra acciaio e campi.
A
proposito, chissà se ha subito danni lo splendido museo Maserati che uno dei
fratelli Panini ha eretto a Modena all'interno della sua azienda agricola.
Lamiere lucenti in mezzo alle forme di parmigiano biologico (come quelle che la
televisione mostra collassate, e sono un muro portante anche loro) e l'odore
del letame che lega tutto, fa nascere tutto. I muggiti delle mucche, in
mancanza di meglio, per simulare il rombo del motore.
Per
quanto il terremoto abbia fatto "un lavoro mai visto", il lavoro di
quei padani di buon umore (quelli di cattivo umore, si è poi visto, sono stati
una novità perdente) rimetterà le cose a posto, prima o poi.
Quando
tutto sarà finito, i morti sepolti, i muri riparati, e i visitatori non saranno
più di intralcio ai soccorsi, andate a Crevalcore, e ditemi se non è bella.”
Sento
robe in giro che ancora non capisco.
L’argomento
è serio, importante, e prende dentro come non mai. E guardo ancora i
soprammobili ogni volta che passo davanti al soggiorno.
E spesso,
la notte, mentre mi addormento, accendo la luce per controllare che il
lampadario sia fermo. Ma il mio cuore spinge e mi servono alcuni attimi per
rimanere fermo con le coperte in mano e capire che era solo un’allucinazione o
una fantasia o.
Sento
robe dentro, anche queste parole, che sono tornate anche a seguito di una
richiesta.
Con
piacere, al momento giusto, che poteva anche non essere esattamente oggi, ma il
caso ha voluto così, rimando quanto mi aveva colpito un anno fa.
Era
il 25 giugno ed ero al Dall’Ara di Bologna per ascoltare tanta solidarietà e
soprattutto tanta voglia di non fermarsi, di tenere botta, di aiutare, di tirar
su le maniche, di proseguire, di non permettere a quello che tanti chiamano
mostro di prendersi gioco di noi.
E passarono
anche queste parole.
E colpirono.
E si
sentirono tanti nodi snodarsi con i magoni a cadere dentro, giù in fondo.
E allora
eccole qui, ancora importanti, a ricordare e non dimenticare.
Ciao
Robbi, tieni botta ancora un po’! (nel senso di fiume)
(sono certo ti saluterebbero anche Paolo, Cate, Bianca,
Tommi, Isabella, Robbi, Mauro)
Grazie!!!!!
RispondiEliminaGrazie per aver accolto la richiesta!
Grazie per aver riportato per intero l’articolo!
Grazie per aver emozionato di nuovo come in quel 25 di Giugno!
Grazie per aver ricordato che tante cose sono state fatte ed hanno aiutato molti paesi a ripartire in maniera quasi normale!
GRAZIE DI CUORE….ANZI TRE, come quelli che battono ancora a Creva, per fortuna!