venerdì 28 febbraio 2014

Non è mai troppo tardi e la lettera ai bambini di quinta

Correva il 1976 ed io non avevo nemmeno un’età, mentre loro erano già in quinta.

Pochi giorni fa, come spesso di recente, quella diavoleria di televisione mi schiaffeggia con parole nette certe e dirette.
Siamo ancora in riviera di ponente e un ospite recita a memoria una piccola parte di un lavoro importante che di lì a pochi giorni sarebbe stato trasmesso da mamma rai.
Mi fermo immediatamente, lascio perdere quello che sto facendo che reputo un’inezia a confronto, e rimango all’ascolto di parole indirizzate.
Prendo un appunto, mi segno un nome e un cognome, e un anno, e una lettera, sul primo pezzo di carta che trovo nella confusione della tavola apparecchiata per altro.
Lo rileggo, l’appunto, e lo tengo lì, dove fa un po’ più caldo, forse.
Passano i giorni, zappo sulla televisione con malavoglia ed incrocio robe che alla fine non interessano.
Poi fermo la zappa del telecomando su mamma rai, ed assisto almeno all’ultima ora del film per la tv “Non è mai troppo tardi” titolo di una vecchia trasmissione che fece tanto per tanti.

Protagonista un uomo buono, colto, all’avanguardia, paziente, espansivo, riflessivo, pacato, deciso.
Alberto Manzi dovrebbe essere raccontato di più e meglio, assolutamente non solo per la trasmissione di cui sopra.

Eccola allora, quella lettera che mi ero segnato su quel pezzetto di carta, e quelle parole dritte a bersaglio, dirette, precise, amorevolmente abbraccianti tutta la quinta classe di quell’anno.
(cerco di ripeterla come l’ho trovata in rete)

Abbiamo camminato insieme per cinque anni.
Per cinque anni abbiamo cercato, insieme, di godere la vita; e per goderla abbiamo cercato di conoscerla, di scoprirne alcuni segreti. Abbiamo cercato di capire questo nostro magnifico e stranissimo mondo non solo vedendone i lati migliori, ma infilando le dita nelle sue piaghe, infilandole fino in fondo perché volevamo capire se era possibile fare qualcosa, insieme, per sanare le piaghe e rendere il mondo migliore.
            Abbiamo cercato d vivere insieme nel modo più felice possibile. E’ vero che non sempre è stato così, ma ci abbiamo messo tutta la nostra buona volontà. E in fondo in fondo siamo stati felici. Abbiamo vissuto insieme per cinque anni sereni (anche quando borbottavamo) e per cinque anni ci siamo sentiti “sangue dello stesso sangue”.
            Ora dobbiamo salutarci.
            Io devo salutarvi.
            Spero che abbiate capito quel che ho cercato sempre di farvi comprendere: NON RINUNCIATE MAI, per nessun motivo, sotto qualsiasi pressione, AD ESSERE VOI STESSI. Siate sempre padroni del vostro senso critico, e niente potrà farvi sottomettere. Vi auguro che nessuno mai possa plagiarvi o “addomesticare” come vorrebbe.
            Ora le nostre strade si dividono. Io riprendo il mio consueto viottolo pieno di gioie e di tante mortificazioni, di parole e di fatti, un viottolo che sembra sempre identico e non lo è mai. Voi proseguite: e la vostra strada è ampia, immensa, luminosa. E’ vero che mi dispiace non essere con voi, brontolando, bestemmiando, imprecando; ma solo perché vorrei essere al vostro fianco per darvi una mano al momento necessario.
D’altra parte voi non ne avete bisogno. Siete capaci di camminare da soli e a testa alta, PERCHE’ NESSUNO DI VOI E’ INCAPACE DI FARLO.
Ricordatevi che mai nessuno potrà bloccarvi se voi non lo volete, nessuno potrà mai distruggervi, SE VOI NON LO VOLETE.
            Perciò avanti serenamente, allegramente,
con quel macinino del vostro cervello SEMPRE in funzione; con l’affetto verso tutte le cose e gli animali e le genti che è già in voi e che deve sempre rimanere in voi;
con onestà, onestà, onestà, onestà, e ancora onestà, perché questa è la cosa che manca oggi nel mondo, e voi dovete ridarla,
e intelligenza,
e ancora intelligenza,
e sempre intelligenza,
il che significa prepararsi, il che significa riuscire sempre a comprendere, il che significa sempre riuscire ad amare, e…amore, amore.
Se vi posso dare un comando, eccolo: questo io voglio.
Realizzate tutto ciò, ed io sarò sempre in voi, con voi.

E ricordatevi: io rimango qui, al solito posto. Ma se qualcuno, qualcosa, vorrà distruggere la vostra libertà, la vostra generosità, la vostra intelligenza, io sono qui, pronto a lottare con voi, pronto a riprendere il cammino insieme, perché voi siete parte di me, e io di voi.
Ciao,

Ho sempre la pelle d’oca rileggendola, e i magoni vagano in ricordi personali e in speranze per i domani.
Un maestro così dovrebbero averlo tutti i bambini.
Voglio dire, ha scritto una lettera così a bimbi di dieci anni: uno spettacolo!
E noi che li crediamo ancora piccoli.
Certo nessuno può sapere cos’hanno pensato tutti quei macinini di cervelli in quell’esatto momento, ma non è quello, è quello che era stato prima nei cinque anni, e quello che sarebbe stato dopo nel ricordo e nel bagaglio culturale e civile e ricercato che quei bambini hanno portato con sé negli anni successivi.
(forse come con una valigia con quattro farfalle dure a morire…)

Sono basito. Sono senza parole. Eppure sono qui a scrivere. Forse proprio perché interessato.

Durante la visione di quell’ultima ora di film mi ero segnato altro, all’episodio del controllo di preparazione da parte dell’inviato del provveditorato, o qualcosa del genere, dove si rimproverava un alunno di somaraggine. Si sottolineava l’importanza della punteggiatura, nella lettura come nella scrittura.
E lui, Alberto Manzi maestro di quinta, scrisse un esempio alla lavagna:

            Il maestro, dice l’ispettore, è un somaro.
            Il maestro dice: l’ispettore è un somaro.

Una genialità!!!
Basta poco per scrivere leggere capire intendere qualcosa di diverso da quella che è la realtà.

Correva il 1976 ed io non avevo nemmeno un’età, e oggi mi chiedo:
perché nessuno mai me ne ha raccontato queste vicende? PERCHE’?


mercoledì 26 febbraio 2014

Sanremo l’ho visto Controvento

Ne ho sempre sentito parlare male. Pochi, sinceramente, ne parlano bene.
La realtà dei fatti, comunque, sta nel fatto che comunque se ne parla.
Io, spesso, non ho disdegnato di assistervi, a volte distrattamente, a volte molto interessatamente.
Quest’anno, a singhiozzo, ho seguito quanto passava da Fabio e Luciana in quel teatro che ricorda elettrodomestici.
Seguo, quando posso o voglio, per un motivo semplice: mi piacciono le canzoni, mi piacciono le parole nelle canzoni, mi piace carpirne i significati nei versi, mi piace immaginare l’autore alla gestazione e alla creazione di una canzone, mi piace l’emozione che suscitano quei tre quattro minuti di mescolanza tra note e lettere.

Allora, di sabato sera scorso, mi sono rimaste alcune robe.
Crozza che temeva l’arroganza e l’ignoranza della gente e che per pura risposta a quella gente racconta tantissime bellezze italiane, con le riflessioni a rincorrersi che nemmeno nella sala degli specchi.
La serenità (apparente?) dei conduttori. L’intelligenza e la bravura di Pif.

Luciano che torna, dopo l’omaggio concesso in apertura di serie, e dice la sua, a modo suo, come solo lui sa fare. Alle prime note di Tu sei lei mi domando come mai proprio quella per cominciare ma sono solo un’introduzione densa di immagini, anche se toccano, toccano eccome. Poi Lui parte live solo chitarra con quei sette accordi che all’inizio nessuno capì, Certe notti e quello che vuol dire comincia inconfondibile ed io parto con mille flash a ricordare un sacco di robe, la prima chiamata nel suo durante, la presenza assidua ai concerti, una firma su uno spazio arancione tanto preziosa, e tante altre, anche se sono solo qualche strofa, come un accenno, come in un medley. Poco dopo Il giorno di dolore che uno ha mi zittisce clamorosamente, il mio silenzio mi assorda perché altri ricordi fremono nella mente. E il rock mi ridesta e comincio a cantare e battere i piedi e le mani, mi sento proprio in un concerto mentre Il sale della terra mi richiama all’ultima Arena e al fatto che la penna va usata per bene, alzo il volume e chissenefrega se erano già passate le undici di sera. Per sempre era inevitabile, Sanremo è citata, m’immagino il vestito nuovo come fosse di legno e non mi piace, e annodo il magone sulla carezza alla testa e vedrai che ce la faremo…

Era quasi l’una di notte quando finalmente vince chi avrei preferito, e sono proprio contento, e sono proprio felice di riascoltare quella poesia, e sono certo che un arrangiamento più rock farebbe arrivare meglio il messaggio e a più persone.
Ma è pur solo la mia opinione.
Eccola, Controvento di Arisa:

Io non credo nei miracoli, meglio che ti liberi, meglio che ti guardi dentro
Questa vita lascia i lividi, questa mette i brividi, certe volte è più un combattimento
C’è quel vuoto che non sai che poi non dici mai che brucia nelle vene come se il mondo è contro te
e tu non sai il perché lo so me lo ricordo bene
lo sono qui per ascoltare un sogno e non parlerò se non ne avrai bisogno
Ma ci sarò perché così mi sento accanto a te viaggiando controvento
Risolverò magari poco o niente ma ci sarò e questo è l’importante
Acqua sarò che spegnerà un momento accanto a te viaggiando controvento
Tanto il tempo solo lui lo sa quando e come finirà la tua sofferenza e il tuo lamento
C’è quel vuoto che non sai che poi non dici mai che brucia nelle vene come se il mondo è contro te
e tu non sai il perché lo so me lo ricordo bene
lo sono qui per ascoltare un sogno non parlerò se non ne avrai bisogno
Ma ci sarò perché cosi mi sento accanto a te viaggiando controvento
Risolverò magari poco o niente ma ci sarò e questo è l’importante
Acqua sarò che spegnerà un momento accanto a te viaggiando controvento
Viaggiando controvento, viaggiando controvento
Acqua sarò che spegnerà un momento accanto a te viaggiando controvento


Viaggiando controvento, bellissima poesia anche in due parole.


Le canzoni hanno sempre il loro perché, e come ha ricordato Luciano non vanno spiegate.

giovedì 20 febbraio 2014

La Luciana mi ha commosso

Ho un’urgenza!
Ora e adesso!
Mi sono emozionato addosso. Lo ammetto.
La commozione è rimasta lì per un po’, dove non si vede ma si sa che c’è il nodo.
Poche righe per elogiare ancora una volta la Litti che ha raccontato della bellezza stando seduta sul palco del Festival di Sanremo proprio pochi minuti fa.
Serenamente, ma nemmeno troppo, ha raccontato la sua.
Prima sul vago, poi sempre più stringendo verso il concetto, arrivando a pallino con la tensione al punto giusto e gli applausi a susseguirsi.
Solo una citazione, prepotente quanto vera:
            Un mondo di uguali è il nazismo che ammazzava i deboli e i diversi.

E allora che venga il diverso, la ricerca del diverso, la conoscenza del diverso, perché l’uguale lo si conosce già perché tale, e non stimola ma annichilisce e non porta al movimento.

La bellezza sta nel difetto e nella ricerca dello sconosciuto.


Bene!

sabato 15 febbraio 2014

Steven Bradbury ci ha creduto fino in fondo

Qui era un video tratto da Youtube riguardante l'impresa di Steven Bradbury alle Olimpiadi e commentata sarcasticamente dalla mitica Gialappa's.
Poi al posto del filmato è comparso questo avviso:
“Mai dire gol – Olimpia…” Questo video non è più disponibile a causa di un reclamo di violazione del copyright da parte di R.T.I..
Non avevo intenzione di ledere nessuno nè di trarne profitto nè violare alcunché.
Voleva solo essere un elogio alla perseveranza nello sport, da tenere anche nella vita.


Ora, al di là dei commenti come sempre esilaranti della Gialappa’s, in effetti una persona che assiste a quanto riportato nel video in modo distratto potrebbe serenamente pensare ed esprimere finanche ad alta voce: “Minchia che gran culo e c’ha avuto!!!”
E magari qualcuno al suo fianco, mi viene in mente un’ipotetica serata tra amici, o un momento al bar con amici e sconosciuti, potrebbe anche pensarla allo stesso modo, ed esclamare altrettanto.
In questo questi casi è facile immaginare come i commenti possano susseguirsi copiosi di aggettivi di ogni sorta, le risate potrebbero essere a crepapelle, fino ad arrivare ad asserire che sia impossibile una roba del genere per di più ad una olimpiade.

Già… impossibile… nulla è impossibile ma solo incredibile.
Incredibile ma vero.
Testimoniato e documentato.
E a nulla varranno le parole spese e i commenti ad accompagnare.

Steven quella medaglia se l’è meritata tutta.

La mia curiosità è forte.
Vorrei conoscere di più questo Steven che nel 2002 ha vinto la medaglia d’oro alle olimpiadi coronando un sogno lungo una vita.
Quindi come sempre, come spesso, mi viene in aiuto la rete e wikipedia.
Lì trovo il perché di tante cose.
Lì trovo dalla A alla Z, quasi, di Steven Bradbury, australiano, Oro alle Olimpiadi 2002 di Salt Lake City nei 1000 metri di short track.
Qui riporto qualcosa…
            La carriera sembrava potesse portare risultati appaganti giacché vinse un bronzo nella staffetta alle olimpiadi di Lillehammer nel 1994 [nb: otto anni prima dell’oro di S.L.C.], inoltre vinse un bronzo e un argento ai mondiali del 1993 e 1994 [nb: sempre nove e otto anni prima dell’oro di S.L.C.].
            Purtroppo poco dopo le olimpiadi del ’94, durante una gara della Coppa del Mondo di Montreal, subisce un grave infortunio alla gamba in quanto la lama di un pattino gli provoca una profonda ferita all’arteria femorale, così perdendo 4 litri di sangue e rischiando la vita; se ne esce con 111 punti di sutura e 18 mesi di riabilitazione.
Un infortunio così abbatterebbe anche il più forte dei supereroi, infatti l’incidente lede irreversibilmente le sue capacità sportive. Ma Steven non si abbatte e ritorna al suo sogno e al suo sport.
La sorte gli gira le spalle anche nel 2000, [nb: solo due anni prima dell’oro di S.L.C.], quando si frattura il collo durante un allenamento, e deve passare sei settimane col collare ortopedico. Le olimpiadi successive sono a un passo e lui è fermo.
Le possibilità di vittoria, come quelle di sei anni prima, sembrano andarsene col tempo che passa, l’età che avanza, il destino o le fatalità che ogni tanto ti danno spallate incredibili. Ma Steven prosegue e ci crede e va, cammina e pattina come si sente.
Qui trasporto quanto trovato su wikipedia, è poi solo la cronaca della medaglia d’oro…
Ai quarti di finale, giunge terzo dietro le stelle Apolo Ohno e Marc Gagnon, ma la squalifica del secondo gli apre le porte della semifinale.
In semifinale l'australiano, dopo le cadute di Kim Dong-Sung, Mathieu Turcotte e Li Jiajun, e l'inopinata squalifica di Satoru Terao, vince e si qualifica per la gara che assegna le medaglie.
Qui ritrova Jiajun, Turcotte, Apolo Ohno e Ahn Hyun-Soo.
Fino all'ultimo giro, Bradbury si ritrova in netto ritardo rispetto ai quattro.
All'ultima curva però, Jiajun cade nel tentativo di sorpassare Ohno, il quale perde l'equilibrio e trascina con sé anche il canadese e il coreano.
Bradbury così conquista l'oro con il tempo di 1'29"109, il primo titolo olimpico invernale per un atleta dell'emisfero australe.
Dirà Bradbury:
«Non ero certamente il più veloce, ma non penso di aver vinto la medaglia col minuto e mezzo della gara. L'ho vinta dopo un decennio di calvario».
Immediatamente Bradbury conquista la simpatia di centinaia di tifosi e di tanti atleti che gareggiano alle Olimpiadi.
In Australia nasce persino un modo di dire, "Doing a Bradbury" (fare un Bradbury), per indicare un successo clamoroso e altamente insperato ma meritato.

            E allora davvero a volte i cerchi si chiudono e una giustizia (divina o no non mi interessa) forse prende il sopravvento sulle cose e rimette i tasselli dove servono e dove è giusto che stiano.
           
            Ribadisco:
            Steven quella medaglia se l’è meritata tutta.



E a me piacerebbe tanto fare un bradbury prima o poi…

venerdì 14 febbraio 2014

Cinico

Cinico va a braccetto con romantico, e non me lo sarei mai aspettato.

Da un vocabolario on line cinico è riconosciuto come aggettivo e o sostantivo, anche nella declinazione femminile. Letteralmente deriva dal latino e dal greco, da cane e da canino in quanto simile al cane o che imita il cane giacché pare che i cinici, le prime persone chiamate così, dispregiassero le istituzioni sociali e le convenienze, immagino gli usi e i costumi dell’epoca, ed escludevano il desiderio che pregiudicasse l’autonomia dello spirito, negavano la religione tradizionale, ed esibivano abitudini naturali e animalesche.
            In altra parte viene riportato qualcosa più vicino ai tempi che corrono: cinico è
chi, con atti e con parole, ostenta sprezzo e beffarda indifferenza verso gli ideali, o le convenzioni, della società in cui vive;
chi non arrossisce di nulla, impudente, sfacciato.

            Wikipedia riprende quanto già scritto, e leggo qua e là supplementi validi. Pare che l’appellativo cinico fu dato ai primi (vedi sopra) in senso dispregiativo dalle correnti filosofiche avversarie, quindi immagino io in modo distante e abietto, evitando la conoscenza di chi diverso. A un certo punto l'ideale era l'autosufficienza condotta fino all'assoluta indipendenza dal mondo esterno, cioè autarchia, capacità di detenere il totale controllo su se stesso. Pare che l’unico fine fosse la ricerca della felicità, intesa anche come virtù eventualmente da opporre alle comodità e agli agi materiali.
            Si potrebbe intendere, poi, con la lettura d’insieme dei vari passaggi nella storia, che il cinico permea lo stoico con molta virtù. Ma questa è solo un’interpretazione meramente personale. E, a grandi linee, non mi dispiace nemmeno.
            Oggi, spesso negativamente, cinico viene usato a indicare persone che sprezzano e illudono ideali e consuetudini, spesso con sarcasmo sfacciato, nichilismo e disincanto, o con sfiducia.
Leggo alcune righe che mi appaiono come conclusioni, forse.
Il cinismo intende contrastare le grandi illusioni dell'umanità, ovvero la ricerca della ricchezza, del potere, della fama, del piacere.
Il cinismo ricerca la felicità, una felicità che sia vivere in accordo con la natura.
Il cinismo esalta l'autarchia.

E al termine di tanti richiami leggo una parola a me sconosciuta (la mia ignoranza fedele compagna!): parresia.
Significa Dire tutto, dire la verità.
E qui mi esplode un’emozione forte, un turbinio di robe nella mente e altrove, i pensieri si fanno stretti stropicciati che quasi fanno male ma gli occhi nel mentre sorridono a quello che vedono e il resto se la ride, raccoglie, assimila, e tutto passa oltre, con una nuova consapevolezza, che nuova non è.
Cito: Nell'antica Grecia fu individuata questa virtù. Si tratta del diritto e del dovere attribuito al cittadino, e specie all'uomo pubblico, di dire tutto, di non frapporre filtri o deformazioni o censure fra ciò che pensa e ciò che dice: dire tutto, e quindi, dire la verità.
Questo non sempre è conveniente, anzi impone rischi e quindi richiede coraggio.
Rinunciare a incatenare - quindi a compiacere, ad irretire, e dover esiliare il furbesco e il desiderabile - può mettere in pericolo il proprio guadagno, la propria adulata soddisfazione, il proprio consenso e la stabilità conquistata.
E questo vale tanto nel rapporto con gli altri che con sé stessi.
Si tratta di una scelta che non è mai gratuita: esprimere la verità chiede sempre un costo - in amicizia, in soldi, in voti elettorali.
Si tratta però anche di una scelta da cui dipende la libertà.
In un mondo in cui le falsità sottili e accomodanti - di etichetta, di amor della pace, di ragion di Stato - regnano sulla società democratica, tanto chi trama quanto chi beve la menzogna è schiavo (anche chi tiene la catena è incatenato).
La parresia è una virtù civile, trasparente, luminosa, modesta e priva di cerimonie - in una parola, socratica - che purga gli ascessi della civile società.
            
Quindi, a mio parere, parresia è una parola che dovrebbe essere conosciuta e usata di più, nel concreto delle cose della vita.


Ora, leggere di cinismo e di cinici a braccetto con romanticismo e romantico in un testo che farebbe arrossire anche la più scafata e matura ed esperta persona mi fa pensare e riflettere oltremodo. I contenuti sono molto coloriti, o come piace abusare a me colorati, e certe parole, come dire, sono molto dirette e lasciano ben poca libertà alla interpretazione, giusto per evitare equivoci e per non risultare patetici e ipocriti.
(Ma di questo scriverò in altro momento, credo nemmeno troppo tardi.)

Ecco perché ho provveduto a cercare di capire chi e che cosa sia cinico.
Rimango e sono perplesso. Rifletto forse più di uno specchio.
Ecco che devo pur giungere a una conclusione, anche se aperta.
E’ che in effetti, forse, come dire…

Eppure son così. Perplesso ma così, io, mio.


giovedì 13 febbraio 2014

Rock In Love e Laura

C’è un sacco di gente! Lei è bellissima!
Sono alla Libreria del Portico alla presentazione del libro.
Sono arrivato un po’ lungo, hanno già cominciato, e sono rapito bene bene dall’incessante incedere delle parole raccontate senza nemmeno prendere il fiato.
E non sta zitta un attimo! Appunto.
E’ travolgente finanche coinvolgente.
Mora, vestita di nero, capello corto lievemente mosso, alcune pitture che sbucano sulla pelle scoperta, sorriso ampio, occhi profondi. I miei complimenti tra me e me.
Sedute sulle sedie della piccola platea sono quasi tutte donne, solo due uomini, forse ad accompagnare una di loro.
Alcune sono parecchie giovani. Una è parecchio anziana e mi domando come mai sia qui.
La libertà è anche questa.
Comincio a prendere appunti come solito, come sempre.
E fatico a starle dietro. Fortuna che ci sono alcuni intermezzi musicali.
Spiega le diversità delle epoche e che le varie storie d’amore sono state documentate in modo diverso a seconda del periodo nel quale hanno preso vita. La grossa differenza sta nelle fotografie a testimoniare quanto negli scritti a raccontare. Quelle più lontane nel tempo hanno più scritti e meno foto, all’opposto quelle più vicine ai duemila. I social network e le possibilità impensabili una cinquantina di anni fa hanno cambiato anche il modo di approcciare certi cronache, di conseguenza anche il suo lavoro di raccolta dati e di documentazione e di ricerca.
Le interessava parlare di un periodo storico, ed io immagino i sessanta e i settanta, quando la vita veniva vissuta in modo molto diverso rispetto agli anni nostri.
Spesso i protagonisti delle storie rock in love sono molto giovanissimi (sì lo so è un errore, qui lo intendo come accrescitivo, (anche questo è un errore?)), ragazze e ragazzi che all’improvviso si trovano ad avere tutto a disposizione, hanno il mondo ai loro piedi, ma pur sempre ventenni o poco di più, quindi si trovano travolti dalle loro stesse vite, seppur vissute in pieno, compreso nei sentimenti e nelle relazioni consumate.
Dopo aver smontato il romanticismo inesistente di Dylan assisto al primo break musicale. Poi smonta Elvis con le sue fragilità e tenerezze. Raccolgo notizie a raffica, non riesco sempre a scrivere, ma questa proprio non voglio scordarla: Marley ha avuto tredici figli con sette donne diverse sposandone una sola, e l’ultimo lo ha avuto da defunto. Mica pugnette! Ora spiega Patty e Because the night di Bruce, struggente!
L’ultima pausa musicale e note stonate, il sax perde colpi, che peccato.

Nel mentre aveva ammesso che lei sceglierebbe e aspetterebbe volentieri Mick, settant’anni portati benissimo.

Saluti, ringraziamenti, buffet che non approfitto, acquisto, dedica, domanda.
Sono contento molto. E le ho portato i miei complimenti.

Rock In Love, di Laura Gramuglia, ed. Arcana, seconda edizione, con sessanta storie.

            Linus, in quarta di copertina dice: “Si può essere felici tantissimo per pochissimo o festeggiare le nozze di diamante. Purchè sia vero amore. Meglio se Rock.”



Dice che lo ha scritto in tre quattro mesi e di corsa chiusa in casa a fare solo quello. La scadenza era ben nota fin dall’inizio, e poco lontana dalla sua proposta di idea, e niente altro, peraltro piaciuta e accettata e avallata subito.

Eccolo il coraggio di credere in se stessi, andare e proporsi convinti, di sé prima di voler convincere gli altri.

Anche le idee, proprie, hanno bisogno di sapere che siamo coraggiosi.  

Ora mi metto a leggere!!!

lunedì 10 febbraio 2014

I RIO al VOX di Nonantola


Venerdì scorso sono tornato al Vox. Il locale è quello che è ma non posso e non voglio giudicare poiché non lo frequento molto. Anzi per niente.
Sono solo contento che sia ancora lì aperto a mostrare un lato della nostra società che altrimenti verrebbe soffocato da tutto questo andare per elettronica e rete e robe poco concrete.
Dunque, ogni volta che posso, o che voglio, quando ci sono quei concerti che mi piacciono e che voglio vedere, rifaccio la mia bella coda solitaria nei pressi del muro esterno col mio bel biglietto nel taschino della camicia, e pazientemente con le braccia chiuse al petto per proteggermi dal freddo e dall’umido attendo di entrare per tentare di fare tutto in orario.
Poi, se com’è andata a ste giro l’apertura della serata da parte di Frè Monti comincia solo verso le 22.30 quando nel biglietto dello spettacolo è scritto 22 a me girano un poco le palle.
Ma ero già dentro e non avevo mica voglia di uscire…

Lo spettacolo è stato bello come le altre volte, come a Curtatone o come a Casoni, e come sempre alla fine mi ritrovo a similballare sul posto, con pochi similsalti e con poche mie braccia al cielo.
A differenza di altre volte non c’erano ragazzi del fanclub a sfogare coreografie. Però c’era l’ottimo nuovo chitarrista Gio Stefani e direi che è stato proprio bravo, e magari è pure abbastanza manzo da attirare le attenzioni delle ragazze. Ha eseguito assoli sentiti e ben fatti, da applausi per davvero.

Soprattutto, e ripeto soprattutto, mi è piaciuta l’iniziativa de I Rio di diventare, almeno per una canzone, cinque elementi anziché i soliti quattro. Con l’iniziativa “Diventa il 5° RIO per una sera!” hanno permesso a una ragazza di 16 anni di mettersi alla batteria e picchiare forte e suonare con loro per un intero brano.
E BENE, MOLTO BENE, con tanto di stacco pausa a terminare il ritornello prima della coda finale, e alla fine si è presa i suoi venti secondi di slego suonando l’impossibile con cassa e rullante e timpano e piatti e charleston e tutto quello che c’era a fremere bene per emettere quell’emozione da sfogare bene bene bene.
VERAMENTE COMPLIMENTI. Un’emozione forte. Molto.

Poi, quasi all’improvviso ma nulla mi ha meravigliato, Fabio ha chiesto se poteva interrompere un attimo per tre minuti tre, che chissà cosa siano tre minuti all’interno di un concerto (una canzone, più o meno, pensavo io).
Poi ha presentato a voce alta per zittire alcuni inutili e ignoranti mormorii il sindaco di Bomporto.
E così sono partite altre emozioni, altri tipi di brividi alla schiena. Altri pensieri si sono accartocciati. Altri sguardi sono stati in giro come le chiacchiere di Federico.
E così c’è stato un poco di silenzio.
E così abbiamo ascoltato un’autorità direttamente al pubblico.
E così una persona importante del pubblico ha parlato al popolo.
Un popolo particolare, se vogliamo, ma pur sempre un popolo che si era radunato nella piazza del Vox ad ascoltare musica pop, musica rock, musica popolare, e lui ha parlato rock, per bene, per stare sempre più vicino al popolo, per metterci la faccia, la sua faccia, che ci ha messo tutto il suo coraggio, la sua persona.
Le sue idee e il suo modo, (giusto o sbagliato che pensi), hanno sentito il suo coraggio.
Ed ha parlato bene, checché se ne possa pensare diversamente.

Poi, il giorno dopo, sono stato avvertito di un messaggio, inviato con l’emozione ancora viva, e spero di non fare male o torto riportandola qui.
Che lo faccio perché lo ritengo importante.
Che mi piacciono certe emozioni.
Che sono contento quando le parole e le idee escono dalla mente e girano per il mondo.
Direttamente a Radio Bruno: “Ieri sera grande concerto dei Rio al Vox. Presente anche il sindaco di Bomporto per ricordare che l’Emilia Romagna è una regione italiana, checché ne dica lo Stato. Ditelo! Robbi.”

Poi, ancora, vorrei riportare altre parole, di ieri, trovate sulla pagina F.B. de I Rio. Eccole:
“Rubiera 09/02/2014

Non voglio farla troppo lunga, ma questa ve la voglio raccontare.
Non credevo di poter rivivere emozioni così forti come quando nel 2010 a Cracovia (dopo quattro giorni vissuti tra campi di concentramento e riflessioni, sensazioni e tensioni che si creavano e che si sovrapponevano tagliandoci lo stomaco dall'interno), riuscimmo a fare, forse, il concerto più intenso e rock che i RIO potessero suonare.
Beh, l'altra sera al Vox, mentre Alberto Borghi, il sindaco di Bomporto parlava dell'alluvione, dei ricordi persi sotto al fango, della gente che ha perso il lavoro, dei sogni affogati, a voi, a noi, a tutti i presenti al concerto, ho provato di nuovo quelle emozioni, un misto di commozione e orgoglio....
Commozione, perché, le sue parole, erano vere, oneste, completamente nude lì sul palco, in un contesto che non riguardava nulla di politico, spogliate di qualsiasi filtro la mente umana potesse erigere per vendere un qualsiasi genere di discorso preconfezionato.
Parole dense.
Orgoglio perché tutto il vostro calore, il vostro affetto ha avvolto, sconvolto, scaravoltato Alberto, me, i ragazzi e tutto lo staff!
Avete scosso le mura del Vox!
Ci avete fatto sentire che l'Emilia non è solo un pezzo di terra dai confini segnalati da lineette tratteggiate su google maps, ma una regione che ha un cuore immenso e una grande forza per risollevarsi sempre e comunque!
Ecco...questo ve lo dovevo dire.

Aggiungo un ultima cosa ringraziandovi immensamente, per quello che ci regalate ogni volta.

Vorrei ricordare un uomo, un uomo che ha perso la vita a bordo del suo gommone mentre prestava aiuto alle persone rimaste isolate dalla esondazione del Secchia!

Giuseppe "Oberdan" Salvioli.

Perché se l'Italia dimentica una parte di sé, gli Emiliani non ripetano lo stesso errore!

Fabio e i RIO”



Bel concerto, DAVVERO, sono stato contento di avere avuto quella compagnia.
Spero non sia finita qui.