E c’ero anch’io a vederlo ripigliato per
bene.
Già perché dopo tutto quello che si è
sentito dire in giro, che si è pensato, ed è stato ipotizzato, alla fine quello
che conta è che il palco ha ritrovato il suo animale.
E vuole essere un complimento, di quelli
profondi e veri.
Dài alla fine Vasco è un animale da palco, e
non smetterà mai di esserlo.
Ovviamente a modo suo, giacché i suoi
atteggiamenti sono solo suoi, e non potrebbe essere diversamente.
Si è appoggiato alla sbarra del microfono
come solo lui sa fare, ed anche quello è un messaggio, sono parole non dette.
E’ come quando guardi uno negli occhi, e lui
sente vede tutto quello che serve, quello che conta.
Domenica scorsa è stato stupendo ributtarsi
in mezzo alla mischia, coi miei tempi, come sempre.
Mi sarebbe piaciuto andare già nel
pomeriggio, magari non troppo presto, ma pur sempre presto, ma alla fine le
robe della vita mi hanno portato diversamente, tipo all’ora della merenda,
giusto per cenare con panino e birra in un baretto lungo la via.
L’aria che respiravo era tesa nell’attesa,
appunto.
Varcare l’ingresso voleva dire entrare in
robe all’apparenza spigolose, fin troppo ruvide e serie per una festa, e il
cane che annusava i cavalli di tutti è stato un riapparire di vecchi ricordi.
C’era gente ovunque, c’erano accenti di ogni
dove, c’erano volti giovani e meno giovani, con le rughe o senza peli, c’erano
magliette che avrei voluto mie ma erano di gruppi che se le sono prodotte, c’erano
colori sgargianti ed anche i freddi neri e scuri, c’erano pure quelli vestiti
troppo per bene, con scarpe inadatte, con gonne inadatte, c’erano quelli che se
divento così ammazzami che mi fai un favore, c’erano quelle da osservare per
bene, c’erano le braghe corte, spesso molto ma non troppo, c’erano short
aderenti che altro che rewind, c’erano occhi da osservare e che rapivano, c’erano
volti da non guardare troppo, c’erano i molesti, c’erano i bevuti, gli sfatti,
gli arrossati, c’erano gli odori di verde che è un piacere, c’erano profumi da
raccogliere come quelli sulla pelle.
E c’erano parole che arrivano e che
arriveranno.
Poi hanno spento la musica fin troppo
pompante.
Poi hanno acceso le luci dello stadio.
Poi hanno spento le luci sul palco.
E hanno spento lo stadio, che si è messo in
attesa.
E si accendono le luci sul palco, ed è l’apoteosi.
Ed è il delirio.
Molto.
Bello.
E sono preso fino in fondo. Tutto. Anche la
parte di dietro.
Braccia al cielo e canzoni in gola urlate
per bene. A squarciagola come poche volte capita per davvero.
Canzone non l’avevo mai vissuta così. Intensa,
e brividi ad accapponare la pelle.
La schiena inarcata a raccogliere tutto
quello che c’è.
Sono stato contento di vedere quelle tette
sul megascreen, non tanto per le tette, peraltro belle, ma tanto per lo spirito
col quale la ragazza è stata al gioco, alla canzone, roba da farle i
complimenti, non per l’ostentazione, ma per l’essere se stessa davanti a tanti,
a modo suo. E non è poco.
Vasco alla fine è sempre lui, chi nasce
tondo non muore quadrato, e non si cambia così tanto. Ha ragione, siamo i
soliti, e siamo solo noi, e siamo ancora qua, checchesenedica.
La scaletta aveva il suo perché, non è un
caso che sia stata così, si è presentato con le sue parole, cantate per bene, e
anche con quelle non parlate.
Al termine l’adrenalina era a palla. E la
notte ancora giovane. Da vive per bene. Per chi può, o vuole.
Grande Vasco, teniamo duro, e ce la faremo. Ne
sono certo.
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