giovedì 5 novembre 2015

L'amore, il telefono fisso, il Moroz, e le Tartarughe piene di Rock

Devo subito ammettere che lo conosco. Anche se lo conosco poco. Credo di avere avuto a che fare col suo “intrattenimento” abbastanza da permettermi di fantasticare sui suoi propri pensieri.
Lo leggo spesso in rete, in quel grande calderone che ormai contiene un po' tutti, compresi gli inaspettati.
Quindi, alla lettura del titolo del volume in presentazione in quella libreria nel modenese, avevo avuto un moto di interessamento della serie 'voglio proprio vedere, in realtà ascoltare, dove potrebbe andare a parare con cotanto argomento'.
Va da sé che ho assistito molto volentieri alla presentazione in quella libreria nel modenese. Nonostante le difficoltà del viaggio visto che è stato sotto uno dei diluvi universali delle stagioni di questi tempi, ma ormai le stagioni non sono più le stagioni di una volta. Sulla mia strada si stava rovesciando tutto il firmamento di una serata oltretutto piuttosto fredda.



L'amore ai tempi del telefono fisso mi aveva portato il sorriso sotto i baffi e i ricordi erano andati lontano, in quel corridoio enorme dove insieme si viveva in quegli anni che furono.
Presentazione andata bene, senza particolari frenesie, e senza particolari entusiasmi.
Ma il mio proprio sorriso era rimasto lì dove si era creato, ancorché enfatizzato da alcuni inviti di natura letteraria (scriviamo così).
Acquisto, richiesta di autografo, sorriso, accordo di consegna, lettura.
In realtà la lettura non è stata esattamente immediata. Ma tant'è, ora sono qui a scriverne.
Il libro è composto da vari “L'amore ai tempi di...” e sono tutti ben articolati.
Non a caso quello rimasto più impresso è il primo, quello del titolo del libro, che è anche più o meno ovviamente il primo in senso cronologico.
Come diavolo era L'amore ai tempi del telefono fisso?

Cavolo i ricordi viaggiano a velocità spedita. E quanto si legge aiuta molto il percorso del viaggio.
Dunque mi ritrovo, io lettore, con la cornetta pesante nelle mani, bollente, accanto all'orecchio, bollente, in attesa di ricevere una voce di là dal 'tu, tu' e con la vivida speranza che nessuno, né in casa mia né nel raggio di migliaia di chilometri, possa avere anche solo la minima possibilità di ascoltare finanche il mio solo respiro.
Ecco, cosa è stato L'amore ai quei tempi. Che nulla, quasi, ha che a vedere con L'amore dei giorni nostri, districato sempre più tra messaggi gelidi, post sgrammaticati, immagini eloquenti che non vorresti aver visto mai, e supposizioni di quel che la tua ipotetica (?) dolce metà possa combinare mentre tu ti arrovelli il cervello per cercare di capire queste brutte sinapsi tra le diavolerie elettroniche.
Ecco, mi sono sfogato.

Quanto ho sorriso durante la lettura? Tanto.
Il sorriso dapprima era romantico o malinconico, pieno di sospiri, poi si è pian piano trasformato in qualcosa di più rigido, e spesso è stato freddo e amaro, come un brutto cattivo caffè fatto malvolentieri alla moca.
Poi il libro ha preso una piega diversa. Lo si nota bene leggendo l'Indice posto in fondo nelle ultime pagine. L'argomento cambia, a volte notevolmente, ma nemmeno troppo.
Poi è la volta delle Tartarughe Rock. E lì il mio lettore impazzisce. Di gioia e di tutto quello che può andarci a braccetto.
Viene presentato un ambiente umano-paesaggio che sembra di esserci, o di esserci stato.
E mi ritrovo molto, in quelle pagine, ed è tutta colpa del Moroz, al secolo Gianluca Morozzi.
A quel punto la matita prende il sopravvento.
A quel punto le pieghe orecchiate alle pagine hanno il loro cazzo di perché.
E' questione di pelle. Sono quelle sensazioni a pelle.
Sono quelle sensazioni che spesso non si sbagliano mai.
Ora, come posso esimermi dal riportare quanto la lettura mi ha ficcato dentro?
Non posso... e così sia...
A pg. 81 “Dove le capre, culturalmente, erano molto più avanti di noi” rimane una tatuaggio indelebile di una generazione, si possa passare il termine 'ignorante', aperta a tutto quello che ai tempi il mondo poteva offrire, potenzialmente, e ben radicata nella propria realtà di territorio (mi era venuta in mente la parola 'terrena' ma ho evitato per scansare equivoci).
Subito dopo, alla pagina successiva, la spennellata dell'autore aumenta il quadro verosimile al lettore, me medesimo: “...e noi giovani calciatori partivamo per i campi della vallata con gli zaini sulle spalle, senza tute o borsoni della società, ma con le scarpette sempre pulite”.
Bang! Colpito! A segno! Perfetto!
A quel punto mi sono detto 'sono tuo, mi hai inlamato per bene'.
Quelle cazzo di scarpette (da calcio) sempre pulite le conosco per bene!
La lettura sta crescendo. Il libro mi tiene lì.
In un grafico dove venisse rappresentato l'interesse la mia curva sarebbe ben oltre la scala massima.
Ora il verbo è fagocitare.
Ci sono punti da tenere ben segnati, come quei detti da ricordare durante i ragionamenti con gli amici, o quegli aforismi da scrivere sui muri o sui banchi o ai margini delle pagine dei libri o sulla rete. Naturalmente senza scordare di citarne l'autore.
Pagina 84 si nota “Ci sono cose che ti cambiano la vita al punto da dividerla in due, in un prima e un dopo, e il passaggio tra il prima e il dopo è netto, preciso e indimenticabile”. Esatto, preciso e indimenticabile, e si dovrebbe farne una buona scorta di momenti così precisi e indimenticabili, anche se non tagliano in due la vita ma semplicemente la cambiano, e la rendono qualcosa di diverso che dopo non sarà mai più come prima. E ancora “Noi ci eravamo fatti cambiare la vita da un concerto”. Ma dai?!? Un concerto che ti cambia la vita è qualcosa di avvolgente, come quelle pellicole invisibili che ti si appiccicano alla pelle e penetrano sotto stringendoti tutto in un vortice di sensazioni. E poi “...ma con la promessa di un paio di birre gratis avevamo scelto la musica a discapito del calcio”. Sono scelte, sia le birre sia le compagnie sia il non calcio almeno per una volta. E io lo so bene ché anche dalle mie parti è capitato qualcosa del genere e un piccolo poster in un quadretto ne è la testimonianza.
Pagina 85 (mica tanto in là) appare la definizione di concerto. Una buona definizione di concerto: “Tu non lo sai mica, all'inizio, che sta per succederti una cosa così. Bevi la tua birra, ti sistemi sotto il palco, si spengono le luci, sei un tipo di persona. Un'ora e mezzo dopo si riaccendono le luci e sei un altro tipo di persona. Basta guardarti in faccia, e sei capisce che in te tutto è cambiato”. Punto. E ancora: “Ci sono dei codici segreti, in ognuno di noi, dei generatori di emozioni che vengono attivati da una particolare combinazione di note, da una certa vibrazione musicale. Quando il generatore si attiva, tu e la musica diventate una cosa sola. E dopo, come per ogni dipendenza, tutto quello che vuoi è averne ancora, e ancora e ancora”. Cioè: generatori di emozioni, combinazione di note, vibrazione musicale, una cosa sola, dipendenza, averne ancora. Ecco!
E qui si potrebbe anche chiudere la lettura.
Il climax personale è raggiunto.
Però non basta. C'è pure la band che suona il concerto, tra le pagine 86 e 87, ed è per forza vestita della tua essenza, oppure sei tu che vesti della sua essenza. Comunque una band, o banda (!), viene vista da “una ragazza non bellissima, ma non banale” “come chi ha visto spalancarsi i cancelli dell'aldilà”, che la si potrebbe seguire, la banda, o band, “in capo al mondo e anche un po' più in là”. Perché quelli lassù sul palco che propongono la loro musica, la loro arte, meritano considerazione, sempre, specialmente se “avevano lasciato spegnere l'ultima nota dell'ultimo pezzo, avevano salutato i dodici spettatori rimasti come avrebbero potuto salutare San Siro pieni in ogni ordine di posti, ed erano scesi dal palco”.
Ecco, un concerto così, suonato da una band così, non può non cambiarti la vita.
A questo punto il mio io lettore non scende più a patti con niente e con nessuno.
Ora vuole solo godere della scrittura, della lettura, e dell'immaginario che per forza di cose si viene a creare nella sua testa mescolata. Quindi sospira assai sul “Ed io, lentamente, facevo il mio bel viaggio nel mondo dei sogni” di pagina 93.
Quindi chiude un attimo le pagine che stringe in pugno sul “E qui smetto di leggere, perché sono sensibile e mi viene da piangere. Anche nello stato discutibile in cui sono ridotto adesso” di pagina 95.
Lo stato discutibile in sui sono adesso, c'hai presente quanto è vero?
Però, cazzo, poi arriva l'apoteosi per davvero.
Parte 8 di questa parte di libro, di questo racconto particolare.
Le due pagine da ricordare e rileggere sono queste: 99 e 100.
Da qui in poi nulla è più come prima.
Con la scusa del rock and roll, (cito Luciano), si descrive la fatica e la voglia di una band, “...questo esercito di nuovi chitarristi e bassisti e batteristi e cantanti e tastieristi che si sbattono per trovare la sala prove più economica”, per riuscire ad emergere e per cercare di proporre la propria arte, che di quello si tratta. E con questa descrizione, “ecco, mi vengono in mente le tartarughe di mare”.
La perplessità è lecita, ma mica tanto.
Per chi non lo sapesse: le tartarughe di mare nascono in spiaggia, escono dalle uova insabbiate da mamma tartaruga, e piccole e lente, appena nate, cercano la vita, tentano di emergere, camminando e scivolando verso il mare, mentre sopra di loro vola famelico ogni sorta di uccello predatore affamato e in attesa esattamente di quel momento, cioè della schiusa delle uova insabbiate sulla spiaggia delle tartarughe di mare.
La chiusura è da applausi, è da scrivere sui muri, è da ricordare bene. E':
Ma la cosa che ci frega, a noi, è che arrivare al mare non è del tutto impossibile. Qualcuno ci arriva, a quell'acqua maledetta, quindi si può fare, quindi ci si riesce, no?
Se sapessimo che è impossibile, che è un'impresa velleitaria, be', la affronteremmo con lo spirito nobile e goliardico con cui si affrontano le imprese velleitarie. E invece sappiamo che qualcuno ce la fa.
E allora, pensiamo, perché non dovremmo farcela noi?”

Qui la lettura si interrompe.
Non me ne voglia il buon Moroz, ma il mio io lettore accenna a un 'a me basta così' e 'qualsiasi cosa ci sarà dopo sarà irrilevante'.
In realtà per rispetto nei confronti del libro, e nei confronti dell'autore, la lettura è terminata all'ultima pagina dove è scritto “Finito di stampare nel mese di Gennaio 2015 da Printì (AV)”. Come previsto non ci sono sobbalzi particolari, non ci sono pagine che il lettore abbia stretto per un momento in più rispetto alla durata della lettura stessa, ecco.

Più o meno così è stato.
La lettura de L'amore ai tempi del telefono fisso in effetti mi ha lasciato tanto delle amate Tartarughe Rock.
E una riflessione in merito al telefono, fisso o cordless, portatile o cellulare: ogni tanto mi capita di rimpiangere 'il non sapere chi sta chiamando', chè oggi abbiamo macchine elettroniche che permettono quanto meno di leggere il numero chiamante, e di riconoscerlo il più delle volte, e di poter scegliere se poter o voler o dover rispondere, e si può valutare pure in quanto tempo rispondere, calcolando all'istante la lunghezza dell'attesa del 'tu, tu' che sente chi chiama. Certo è comodo. Certo senza si brancolerebbe ancora nel buio.
Ma ho come l'impressione che questa possibilità metta ancora più distanza tra noi, in questo tempo che fatico a comprendere, dove le relazioni umane sono fin troppo controllate, non tanto dal 'grande fratello' ma piuttosto da noi stessi.
E tutto questo è un peccato.

Niente, alla fine, le tartarughe ci arrivano sempre al mare. Punto.


L'amore ai tempi del telefono fisso, Gianluca Morozzi, Ed. Ferndandel

domenica 18 ottobre 2015

Le Onde di Elisa le vedo un po' così

Capita a volte, spesse volte in autunno, di andare là dal mio mare. E prima di andare a mangiare la piada nel locale dove va mangiata la piada, capita di andare a salutarlo, il mio mare, per dirgli di stare tranquillo che ci si vedrà ancora l'anno successivo, fosse per un momento per un giorno o per un periodo non ha importanza.

Mi avviai la notte scorsa, salii in auto e me ne andai. Cercai di arrivare alla spiaggia prima dell'alba, e quando la raggiunsi mi feci prendere dalle onde, osservai la luna e le stelle e, cercando di trovare quanto avevo smarrito, raccontai loro tutto quanto di noi.
Dentro a quelle migliaia di onde, e ancor di più in quei milioni di onde, ne sono certo, da qualche parte vidi il tuo viso, ti vidi là in mezzo. E sperai che il sole normalmente tanto mattiniero, prima che sorgesse, prima che arrivasse a splendere ancora su di noi, mi lasciasse trovare ancora un po' di sollievo nella notte poiché non ricordavo tutto quel che avevo perduto.
Quando raggiunsi la spiaggia nulla era come prima, niente era cambiato. In quelle migliaia di milioni di onde cercai ancora l'amore. E tutto quel che vidi era il tuo viso, tutto quel che vidi era il tuo volto.
Ora sto piangendo amaramente qui sulla spiaggia, ma sto scegliendo ancora te.
Ormai quel che fatto è fatto, ma sono pronto a ricominciare...
Ora tutto quel che vedo è il tuo viso, ancora.
Ora ho voglia di tornare a casa da te!


(liberamene ispirato a The Waves, Elisa)

martedì 21 luglio 2015

Sono stati bravissimi!

Sono stati bravissimi!, e non smetterò mai di affermarlo.
Hai un'idea e vorresti coinvolgerli.
E almeno uno dei due ne è entusiasta. Allora inizi a pensarci per bene, e passano i giorni, e passano altri impegni.
Arriva il giorno che dovrebbe vedervi protagonisti di una bella giornata e tu che fai?, pensi bene di essere stanco. Come loro peraltro.
La mattina stessa hai una illuminazione: il giro, passeggiata, o trekking che dir si voglia, sarà in Val Sorda nel Valpolicella poco a nord di Verona.
Quindi panini, vestiti, occorrenze varie, e sono pronti due zaini da portarsi appresso per quella che dovrebbe essere una buona escursione. A questo punto pomeridiana.
Tu lo sia bene che un pochino è azzardata. Visto che conosci il percorso perché già camminato in un paio di occasioni, sai anche che sarà solo la prima parte a darti più pensieri, con gli ostacoli e gli esercizi naturali, e che dopo sarà solo una lunga camminata per il rientro.
E allora perché non andare per davvero in quella che sembrerebbe una villanata di altri tempi ma che è semplicemente un'escursione pomeridiana?
Andate. Voi tre. Come altre volte. Voi tre. E un perché anche in questo caso ci sarà.
L'apparenza dice che sono pronti per un giro così lungo, e quando siete al parcheggio nei pressi del Mulino sono pronti a cambiare i sandali con le pedule, sono pronti a mettere lo zaino sulle spalle, pronti con berretto in testa e bastone al fianco.
Cominciate a camminare e subito inizia la tua tiritera di raccomandazioni, giacché andare per sentieri non è una passeggiata, e questo è tutto dire.
L'ambiente è coinvolgente come le altre volte, è bellissimo, e il frastuono del torrente è una fresca copertina alla calura che stenta ad andarsene.
Gli ostacoli si presentano puntuali, come previsto, e sono affrontati attentamente, come sperato.
La vista del ponte tibetano sopra la vostra testa non fa che incentivare i passi.
Ma i crampi di fame del pranzo, giacché lo sai bene siete partiti ben tardi la mattina, si fanno sentire presto.
Pochi ostacoli dunque, pochi attrezzi da escursionisti esperti, e vi fermate seduti al bordo del sentiero.
Avete già affrontato delle passerelle, delle scalette, delle rocce un po' così, come dire, impegnative, e delle corde, funi e catene. Avete già percorso e affrontato un tratto esposto al torrente, dove il torrente è solo una vasca di roccia lunga sottile, dove mettere male un piede o una mano significherebbe scivolare giù. Non è nemmeno lo scivolare in acqua (e magari, per certi versi, scivolare in acqua fredda vista la canicola estiva), bensì è scivolare sulla roccia, eventualmente sbattendo qua e là, col rischio di segnarsi rompersi o altro.
Quindi tu, dal loro fianco, hai già perso qualche anno di vita.
Eppure sorridi con loro mentre mangiate gli avanzi scongelati di spaghetti al tonno e di salmone alle patate e mentre sgranocchiate i panini del mattino, ma soprattutto mentre bevete. Bevete molto, pure i sali minerali...
Fa caldo, le magliette sono ben madide, i berretti gocciolano l'essenza della fatica.
Siete sereni.
Mentre consumate gli ultimi morsi, di fame o di cibo, osservate stupiti e imbarazzati quattro persone, presumibilmente una famiglia, probabilmente non italiana, scendere scivolare dal fianco del monte davanti a voi, immaginando tutta la loro difficoltà nel muovere quei passi su quel ripido pendio.
Controlli l'orario. Ripartite, senza perdere troppo tempo perché se è vero che la seconda parte “è solo tutta camminata” è anche vero che è necessario arrivare alla metà della passeggiata così da essere saliti più in alto, fuori dalla gola, e poter contattare chi di dovere per lasciare anche solo un misero messaggio della serie “tutto bene, tutto come previsto”.
Perché in quella gola, e pare tutto attorno, non c'è il minimo campo, c'è “solo chiamate di emergenza”.
Continuate dunque la vostra avventura. Pieni di chiacchiere, battute, sospiri, e le prime fatiche.
Lasci sempre più spesso che siano loro, chi prima chi dopo, a trovare il segno biancorosso per proseguire i passi. E lasci che siano loro a capire e spiegare come affrontare i vari passaggi sui vari ostacoli (che ogni tanto tu chiami “esercizi ginnici”).
Sono bravi. Capiscono. Spiegano. Vogliono fare da soli.
E tu, dietro, o di fianco, solo a controllare i loro passi.
E tu, alla distanza giusta, speri, attendi che siano loro a chiedere a te.
E tu, correttamente, lasci loro tutta la libertà possibile.
Quello che avresti mai voluto vedere poi capita. Davanti ai tuoi occhi scivola uno di loro. Scivola e non ci puoi fare niente. Scivola e non si agita. Stringe i denti. Si ferma presto. Si alza si tocca. E' bagnato infangato e stanco e deluso. E' serio. Presto sei da lui. Lo rincuori. Lo sorreggi. Ti accerti delle condizioni. Pare a posto. A parte lo spavento. Stringe i denti, forse per non mollare la tensione. Forse per non piangere.
Prendi in mano la situazione, e fortuna non sei da solo. Vi aiutate. Lo cambi, nuovi pantaloni nuova maglietta.
Ecco cosa serve il cambio nello zaino, quello che non vorresti mai utilizzare ma che all'occorrenza deve esserci.
Sei organizzato bene, nonostante tutto, nonostante tutti i pensieri che hai.



Annunci che presto arriverete al termine degli ostacoli, che verso la fine ce n'è uno veramente interessante.
E tra te e te speri ancora che non sia troppo tardi.
Finalmente arrivate alla roccia, e al suo laghetto di sotto. E loro non sanno che pesci pigliare. E loro si immaginano camminare dentro al laghetto perché non capiscono mica come poter passare. Allora fai notare che il segno biancorosso non è come tutti gli altri, che è disegnato diversamente, che sembra proprio una freccia, come a indicare la via.
Dunque, un attimo di riflessione, e capiscono che ci si deve infilare sotto a quella roccia nei pressi del suo laghetto, che ci si devono utilizzare dei passaggi stretti con pioli in metallo piantati nella roccia.
E via allora, sdraiati sul sentiero roccioso a scalare quella che sembra un'impresa.
Poco oltre incrociate i passi dei quattro ragazzi di cui una in infradito. Sono gli stessi che al mattino appena cominciata la camminata vi hanno superato senza alcuna difficoltà. Biascicano alcune parole tra loro, ma mica tanto, come “ci siamo quasi persi”. E tu immagini che stiano rientrando da non so dove, che nemmeno li vedi adatti a camminare lì in quella gola. Passate oltre e non vi curate troppo di loro.
Avanti qualche passaggio a passi ben distesi, se non fosse per i su e giù ripidi del fianco della montagna, arrivate in un tratto tranquillo; l'acqua è lontana o sotto i massi che calpestate, ma spesso scorre sulle lastre di pietra che ogni tanto siete costretti a camminare.
Ancora, ma l'altro, vedi quello che non vorresti vedere. Scivola col piede e cade. Cade sembra male e fragorosamente. Il pianto è immediato. Si tocca, si tocca troppo. Eppure è in piedi con te. Ti guarda rapito dal dolore. La tua preoccupazione aumenta ma non la lasci palesare. Ora è da curare, nel senso di tranquillizzare. Il grosso anche questa volta è lo spavento.
Passerà.
Quello che non passa è la stanchezza. E ora che non siete nemmeno a metà è veramente già troppa.
Però è forte anche lui, come l'altro, come te. E proseguite.
C'è un altro passaggio che ti fa perdere anni di vita, è scivoloso ed è cieco. Ma siete oltre che sembrate uno spettacolo.
La gola si stringe. Il torrente torna a fare sentire il suo canto. Il cielo azzurro si nota sempre più tra le fronde degli alberi. Ormai è ora di salire, finalmente, al paesello di metà camminata.
Ma la via non c'è. Cioè voi non la vedete. Cioè dopo l'ultimo segnale biancorosso pitturato sull'ultima grande roccia ci sono solo un ampio laghetto la gola stretta e tanti alberi sradicati e franati.
Ti fai silenzioso. Molto. Controlli oltre. E' una situazione che hai già vissuto e sai bene che se oltre l'ostacolo non si vede alcun segnale è molto probabile che sia meglio non proseguire. Valuti. Respiri. Ti fai pure silenzioso. E loro con te. Probabilmente capiscono il vortice dei pensieri che hai in testa e almeno ti lasciano riflettere un po' in pace.
Poi controlli l'ora dell'orologio: è già troppo tardi per qualsiasi situazione. E non va bene. A quell'ora dovevate essere ben oltre la metà, ben oltre il paesello. E non c'è ancora segnale. La gola strozza ogni possibile comunicazione.
E la tua preoccupazione pensando a chi dover voler avvertire si fa grande. Ma la tieni per te, che loro non possono non devono percepirla.
Si torna indietro!”, sentenzi senza battere ciglio.
Avverti che sarà da ripetere tutto, tutte le difficoltà saranno da camminare, tutti gli ostacoli da superare... che non c'è altra via per tornare all'auto.
Sorridi distraendo i loro sguardi preoccupati, e cammini facendo loro segno di muoversi e di sfruttare tutti i tratti che consentono di camminare al meglio, sempre attenti a dove come si mettono i piedi, in svelto per accorciare al massimo i tempi.
Il sole è ancora alto ma presto andrà dietro la montagna a ovest...
Poco dopo realizzi che quei quattro ragazzi di cui una in infradito avevano anch'essi forse, forse?!, FORSE!!!, trovato il sentiero occluso dalla frana, ma da veri “BASTARDI LORO E CHI COME LORO” non avevano detto nulla in merito, non avevano avvertito voi tre. Niente di niente. Solo vaghi sorrisi di circostanza falsi e e pieni di superbia.
Presto arrivate al primo esercizio di equilibrio su quella lastra di roccia e trattenendovi alla corda riuscite bene nel passaggio. Loro sono concentrati, e tu li trascini bene. Altro ostacolo altro giro altro gettone altro passaggio. E camminate verso il rientro.
Ma sai bene che sono tanti gli ostacoli, e che rischiate di scivolare o cadere o ancora peggio. Hai già visto cadere entrambi, e non vuoi assolutamente ripetere quelle visioni.
Immagini che forse, forse, se salite sulla destra, magari salendo un po' ripidamente, arrampicandovi, potreste trovare il bosco che guarda il sentiero che sarebbe stato di rientro; controlli la mappa e vedi bene che le linee di altitudine sono lontane, quindi da quella parte la collina scende lentamente; capisci che potrebbe essere davvero una buona idea; controlli spesso alla tua destra, in alto, ma è sempre sempre più roccia, e sembra inattaccabile dai vostri passi.
Nel mentre loro ti seguono ligi, a volte sorridono, a volte scherzano. E tu li senti sereni.
Arrivate, finalmente, all'indicazione per la grotta. Di lì sale un sentiero, sembra fiancheggiare il fianco del monte. Ti piace, e piace a loro. Quindi vi avviate pestando la traccia che a volte è nascosta dalle frasche. Si vede bene che non è frequentato molto anche se ben visibile. E sembra davvero aggirare il fianco del monte. In breve scorgete il ponte tibetano. E sospirate positivamente. Quel ponte lo avevate visto all'inizio del percorso, quindi giocoforza siete verso la fine. Sospirate ancora. Sorridete bene.
Ricordi perfettamente che all'inizio del percorso era presente un cartello segnaletico indicante il ponte tibetano, ed era proprio da quella parte, quindi il ragionamento ti porta a pensare che attraversando la gola sul ponte potreste arrivare davvero a un sentiero certo per fare ritorno al parcheggio dove c'è l'auto.
Vi concentrate bene e con la massima attenzione camminate sul ponte sospeso a quaranta metri sopra il torrente, che da così in alto nemmeno si sente scorrere. Quando arrivate di là, che tu pensi il punto di partenza per il definitivo rientro, loro fanno merenda e tu controlli i dintorni scoprendo che il sentiero che vi apprestare a camminare sembra appena fatto, e sembra fatto apposta per arrivare al ponte partendo da giù, là dove l'auto vi attende.
Ti guardi intorno ed ammiri il panorama, ammiri quello che manca poco essere il tramonto. E' estate e il tramonto è lungo in estate, ma le montagne tendono a nascondere prima del tempo la discesa del sole nella notte.
Proseguite, dunque, rigenerati dagli ultimi ragionamenti e dalla consapevolezza che non siete sperduti non si sa bene dove. Siete convinti, e cominciate a salire i gradini terrazzati con le travi di legno. In poco arrivate a una panchina (e tu pensi tra te e te che se c'è una panchina c'è anche una buona via, e che quindi siete davvero sulla strada giusta, e pensi che ve la state cavando bene), che si trova su un piccolo spiazzo dal quale si gode una vista panoramica delle valli e dei monti. Affascinante, ma voi dovete ancora proseguire.
Il sentiero vi costringe a salire ancora, sulle rocce, con gradini naturali non sempre agevoli. Ci sono dei tratti che sono molto esposti. E le tue preoccupazioni aumentano.
Lo senti che sei preoccupato, lo sai e lo vedi delle infinite gocce di sudore che scendono incessanti dalla tua tesa. Sai che sei in pericolo, che loro con te, che basterebbe un attimo. Lo sai bene e ti sforzi di abbracciare entrambi per proseguire bene.
Successivamente il sentiero si sviluppa senza gradini, livellato sul fianco, ma non scende. Ti permette di provare a chiamare col telefono, perché tutta quella salita potrebbe avervi portato in un luogo dove il segnale arriva. I vostri telefoni infatti cominciano a vibrare e a risvegliarsi. Fate una telefonata per tranquillizzare chi attende ancora notizie. E mandi un messaggio breve per cercare altra tranquillità, ché non vorresti mai fare preoccupare, e rimandi a più tardi spiegazioni verbali, che ora è lì che devi badare bene.
Poi, dopo molte fatiche, arrivare a un boschetto dove c'è una traccia di sentiero, anzi sentieri, molto ampio, e dove ci sono segnaletiche varie. Tra le quali noti quella che indica il sentiero in Val Sorda, quello degli esercizi escursionistici per esperti, quello con gli ostacoli di roccia corde catene passaggi scalette ponticelli. E noti che in fondo, dove voi avete deciso di rientrare, il sentiero sale a destra con un tornante, e un altro tornante, e poi successivamente sale a sinistra verso il paesello.
Ecco che pensi che forse potevate proseguire senza tornare indietro e soffrire tutto quello sofferto.
Ma il dubbio ti disturba, distrae la tua concentrazione, quindi non ci pensi più, non ci vuoi pensare. Ti concentri sul cartello che punta al Mulino dove è parcheggiata l'auto. Dice 600 metri di lunghezza, 250 di dislivello, 40 minuti di camminata. Dici che 600 metri non sono tanti, sono niente, sono un giro e mezzo di pista. Dici che 250 metri a scendere sono molti, che tutto quello che avete salito fino a quel momento ora è tutto da scendere. Dici che 40 minuti speri siano meno.
Vi avviate e presto il sentiero scende, scende, scende. Sono mille i gradini di roccia che affrontate. E sono altrettanto i tornanti esposti che sembra invitino a buttarsi di sotto.
Tutta l'acqua, in partenza sembrava troppa, che avevate con voi, che avevi tu nello zaino sulle spalle, sta per finire. La disidratazione è dietro l'angolo. Avete sudato tanto, troppo. Ed il rischio di sentirne la mancanza è alto.
Chi è davanti sceglie bene i suoi passi, e tu poco distante lo ammiri, lo inciti, lo lodi. Chi è dietro si sente meno pronto, ti chiede spesso la mano, e spesso gli dici dove mettere i piedi, anche se altrettanto spesso lui stesso vuole fare a modo suo, e tu lo lodi per le sue iniziative. Così alterni sguardi preoccupati e ammirati davanti a te a chi fa la strada, ad aiuti e sorreggi le spalle a chi è più vicino appena dietro a te.
Scendete, scendete, scendete. E con voi il sole. E la montagna di fronte sembra abbracciare l'arancione del tramonto.
Piano piano vi addentrate nel bosco, il sentiero sembra meno ripido. Un minimo ma non troppo vi rilassate. Vedete il tetto dell'edificio del parcheggio. Siete soddisfatti. E siete stanchi. Stanchissimi.
Talmente stanchi che chi è davanti e cammina per primo non ne può più. Inciampa e cade. Cade. Ma cade bene e si ferma appoggiato a un alberello. Ha un motto di stizza e nervoso, si è impaurito, è stanco, si lamenta.
Butta lì un pianto di sfogo, come a buttare fuori qualcosa, una preoccupazione.
Come a ricaricare per l'ennesima volta le pile di questa giornata.
Poco dopo si fa pausa bagno wc escrementi. E pure questo è motivo di rilassamento e di “ce la stiamo facendo”.
Tu, dentro te che fuori non puoi, salti dalla consapevolezza che manca poco all'apprensione che il buio sta scendendo sempre più. Lo senti bene che ci sei, che ci siete, che siete in fondo. Li convinci a mantenere la calma e la concentrazione, che non è il caso di rovinare tutto proprio a un passo dalla meta.
Poi scorgete un prato. E ascoltate il torrente. E ci siete.
Due, tre passi. Un guado svelto. Il sentiero del rientro che non avete percorso.
L'asfalto. Il parcheggio. L'auto.
Tu sei contento. Contentissimo. Fosse per te grideresti di gioia. Ma il tuo ruolo ti impone altro.
Li inviti a battere il cinque, e anche il dieci. Li inviti a essere felici e soddisfatti. E loro rispondono per le rime. Sorridono, scherzano, tolgono le pedule, si cambiano la maglietta, bevono quel po' che è rimasto. Sembrano pure appagati. Sono stanchissimi.
In poco sedete in auto.
In poco vi rilassate nel rientro.
Chiamate chi deve essere chiamato, tranquillizzando il più possibile, c'è chi sorride c'è chi dice che non ne farà più, c'è chi ascolta in piena preoccupazione.
Ed in silenzio prendete la via del rientro.
Arrivare a casa è ancora lunga.
Vi aspetta un bel viaggio in auto al buio della notte, la pizza, e la gioia del letto per dormire bene.

Sono stati bravissimi!!!
E non smetterò mai di affermarlo!

(e tu, se spesso hai perso degli anni di vita, hai anche raccolto tutto quello che passava, tutto di loro)


lunedì 29 giugno 2015

Riky come Vicky, andata e ritorno

ANDARE, ANDARE. E COME ANDAVAMO!, Fabrizia Amaini, Ed. Fortepiano

Per tutta sincerità mi aspettavo altro, non so cos'altro, ma certamente la lettura mi ha sorpreso, come sempre come spesso.
Per tutta sincerità certi dialoghi non sono proprio in grado di raccoglierli così come sono stati scritti.
Ché non credo mica a una madre che, quando si trova in preda ad ansia e agitazione per il figlio finalmente tornato a casa, anche se praticamente in fin di vita, possa adoperarsi in contorti monologhi e in discorsi complessi per spiegare il proprio stato d'animo. E forse nemmeno quel figlio tanto colto e tanto letterato non so mica se possa affaticarsi in spiegazioni finanche ridondanti.
Ecco, per tutta sincerità questo libro stavo per abbandonarlo sul nascere, quasi.
La lettura si stava arenando e stancando in quelle troppe pagine pesanti del ritorno.
Poi, però, per fortuna, è stata raccontata l'andata.
E allora la lettura è scivolata via, a fianco di Riky, sentendo sulla pelle le sue emozioni di giovane scrittore.
Poi la storia raccontata, del viaggio interiore ed esteriore, è stata uno spasso.
Sorridevo, mi piaceva, mi compiacevo, riflettevo, mi emozionavo.
Poi, il lettore, per fortuna, è stato davvero ammaliato dalla scrittrice.
E quando il lettore si sente un tutt'uno col personaggio, col protagonista, vuol dire che tra lui e chi scrive nasce una sinapsi continua, una scintilla dopo l'altra, che raramente è interrotta prima della fine.
Infatti la fine è arrivata.
E' arrivata come mi aspettavo, giacché la storia di Riki come Vicky un poco la conosco.
E alla fine sono rimasto un poco con l'amaro in bocca, sono rimasto pensando che una persona così, dico io, avrebbe dovuto avere altro riscontro in vita. Una persona così avrebbe dovuto avere una considerazione maggiore, e diversa, soprattutto da quelli che la pacca sulla spalla al bar gliela davano per davvero, ma anche da quelli che lo osservavano e salutavano per le vie del suo borgo.
L'“andata” è stata costretta, cosi come costretto si è sentito il “ritorno”.
E in mezzo tutto quello che è stato, ottimamente descritto da Fabrizia. Ché mi sono sentito là con lui, a volte più a volte meno, in giro a conoscere a volte più a volte meno, di ritorno da una riflessione a volte più a volte meno.
Come spesso mi capita ho “orecchiato” le pagine e o sottolineato dei passaggi, che qui mi permetto di riportare:
     “...Così è l'amore. L'amore è assoluto, non si può comandare, accelerare, guidare, evitare. L'amore è totalità e pienezza. L'amore ti fagocita, ti trasforma, t'inghiotte, e tu perdi te stesso. L'amore è cieco e non sceglie la persona da amare. Ma l'amore può ucciderti. E ha ucciso me”.
     La scrittura mi salvava. Tu non puoi immaginare! La lettura ti fa viaggiare, fantasticare, sognare. La lettura ti erudisce, anche, ti rende libero perché ti svincola dalla tenebra del pregiudizio e dell'ovvietà. La lettura ti nutre. Ma la scrittura! La scrittura è una cosa che non puoi spiegare! Se non ce l'hai dentro, non la capisci. La scrittura ti salva. E ti conserva. E t'alleggerisce.”
     Una trappola, ecco che cos'è la religione! Il calappio al collo ti stringe, poi ti tira dalla parte che vuole lei. E' una fregatura! Ti fa credere che ti ama, poi ti rifiuta se non la obbedisci. Al diavolo preti e religione!...”
     Oh, non è mai troppo tardi. Si può cominciare ad essere artisti anche a quarant'anni. L'importante è che prima di morire si riesca ad estrarre quelle qualità e quelle ambizioni che stavano compresse dentro come abiti dismessi in una cassapanca chiusa a chiave”.
     ...E' sul tempo che bisogna lavorare, perché solo il tempo saprà apportare le giuste risposte e fornire la misura delle cose”
     A volte la sua voce si smorza in flebile sussurro, e la malinconia le rallenta il fiume di parole. Allora i suoi occhi diventano due opache fessure che racchiudono storie lontane.     “L'amore fa soffrire. Non vorrò più amare nessuno””
     Al fondo c'è un dolore troppo grande da celare, ci sono le infinite chimere spezzate, una velleità sconfinata di pace e una silente invocazione d'aiuto da non urlare, perché il suo dolore è una cosa intima, tutta sua, che non può e non vuole condividere”
     ...e vorrei alzare una mano per farmi scorgere, per dire loro che io sono qui, dietro l'angolo, a non perdermi lo spettacolo della preparazione del loro viaggio. Perché sempre di viaggio si tratta: andare in duomo o volare nelle calde terre del sud, è la medesima cosa. Sempre un viaggio. E una fuga. Una fuga verso una realtà diversa che ti restituisca un cibo nuovo per vivere, che ti allarghi novelli orizzonti di utopie.
Andare, andare. E come andavamo!



Ora lo posso rendere a Chiara, compaesana del/i protagonista/i, che certe relazioni nel borgo le ha vissute simili, ricordando che “coraggio che è lunga”.

sabato 25 aprile 2015

Questo 25 diverso

Questo 25 aprile è diverso, non c'è minimo dubbio.
Le robe per la testa sono tutte nuove, oppure sono solo rinnovate.
Cade di sabato e forse aiuta la riflessione, che le tensioni della settimana scemano nelle quasi routine del weekend.
Questo 25 è diverso dall'altro, quest'anno più che mai.
Lo sento, e non so bene perché. O forse sì.
Sarà che ci sono segnali in giro, sarà che non è mai un caso, sembra, quello che accade.
Della serie, ancora, il caso non esiste.
E allora seguiamolo questo caso, come sempre, come spesso.
Qualche giorno fa mi sono arrivati inaspettati due doni che sembrano piovuti dal cielo.

E infatti di cielo e di viaggi s'era pure parlato.

Fatto sta che il dvd “La neve cade dai monti – Dai valori della Resistenza alla Costituzione” , dalla quarta di copertina, dice che “dalle testimonianze dirette di chi l'ha vissuta di persona la ricostruzione cinematografica degli avvenimenti: un gruppo di giovani attori incontrano partigiani e staffette e ascoltandone i racconti vengono fagocitati dalle loro storie.” Il racconto, immagino solo in quanto ancora non ho assistito al film, narra delle vicende di due brigate, in pianura e in città, accomunate dagli intenti e da un tragico episodio. E sempre in quarta di copertina si legge “...eppure lo sconforto viene presto sostituito da una solidarietà e da una fratellanza che li spingeranno a continuare la lotta anche a nome dei compagni caduti.”
C'è un perché, c'è sempre un perché...
Assieme è arrivata pure un'altra spinta a fare, intendendo quel fare che ti porta a spostarti da una posizione all'altra senza soluzione di continuità.
Andando, andando, coi tuoi passi, seguendo il vento ma anche no.

E allora torna la voglia di andare con quei passi, sulla Via degli Dei. E questo, molto, ha il suo perché.



Presto, domani?, stanotte?, non so bene quando?, guarderò il dvd.
Presto, credo, spero, utilizzerò quella mappa mai vista così dettagliata...


E allora via, senza soluzione di continuità.

lunedì 9 marzo 2015

Esistono davvero

Quando si dice che non si sa mai cosa ti può aspettare in un certo momento è proprio vero.
Ci sono momenti, che nemmeno ti aspetti, durante i quali, e il durante è d’obbligo, capisci quanto sei piccolo e volendo insignificante.
Sono momenti che non controlli, che non puoi controllare, e non puoi fare altro che viverli raccogliendo il possibile.
Esistono, me lo raccontavano già qualche anno fa.

Lo raccontò una ragazza particolare che rubò un po’ di tempo al suo lavoro per passare qualche minuto a chiacchierare con me. Mi raccontò la sua opinione, raccontò che per lei esistono e che sono tra noi da moltissimo tempo, e che in poco tempo tra poco tempo conquisteranno il mondo.
Poi sorrise e guardò il cielo, ancora là verso la luna, e spiegò che secondo lei vengono dalla Cina, che si sono insediati là per mescolarsi meglio ai grandi numeri.
Ed io ad ascoltare nelle mie stanchezze, e nella mia meta del giorno dopo.

Poi, una sera in un piccolo teatro di provincia, mi capita per caso di trovare la prova umana concreta della loro esistenza, col pensiero che va a quei momenti su quella terrazza di qualche anno fa.
Esistono davvero, gli alieni esistono davvero e ora ne ho le prove:



c/o CineTeatro Arcadia di Ravarino (MO)


sabato 14 febbraio 2015

Francesco tra gli Amici del Muratori

Spesso, ormai, troppo spesso in effetti, mi riduco a scrollare le notizie, se così le vogliamo chiamare, che distribuiscono i contatti di facebook.
Preferisco, sbagliando, chiamarli contatti e non amici come si dovrebbe, in quanto credo fermamente che i secondi siano una questione a parte, che l’elettronica e le catene delle robe di rete così intrecciate sono proprio distantissimi da quello che è e deve essere un’amicizia.
Dunque, scrollando qua e là si scoprono anche robe interessanti, lo ammetto; e allora che in questo periodo sembra che il tempo non manchi perché non raccogliere certi inviti anche se inviti diretti non sono?
E allora vado. Ma non vado da solo. Come lo scorso anno sono stato in compagnia ad ascoltare le sue parole. Sono certo che la ‘Dele sia rimasta contenta del coinvolgimento.
Si è andati a Modena, dalle parti dello stadio, al Liceo Ginnasio Muratori.



Quando si arriva, per fortuna per tempo, l’aula magna (mica tanto magna) non contiene ancora tanti spettatori, così noi si riesce a sedere bene e comodi.
L’attesa è densa di chiacchiere, battute, curiosità, sistemazioni di oggetti vari quali sciarpe quaderno borsa zaino, prove di foto andate spesso male. Presto le persone arrivano, come si suol dire alla spicciolata. Molti hanno un’età, del tutto simile a quella di ‘Dele, e io mi sento un po’ meno anziano all’interno di un liceo. Alcuni probabilmente sono genitori di studenti, ma anche no, potrebbero esser gli amici dell’Associazione Amici del Muratori, appunto. Fatto sta che viene spontaneo pensare che la maggior parte del pubblico avrà diciassette o diciotto anni, che nel mentre arrivano pieni di entusiasmo sorrisi smartphone colori occhiali, e di lamentele che non ci sia più posto a sedere e che siano presenti  persone non del Muratori (eccoci, presenti, noi, qui, seduti, per tempo). Quindi penso e rifletto che io alla loro età non sarei mai andato a vedere ed ascoltare un cantante o uno scrittore che fosse interessante a persone allora reputati dinosauri dell’età dei miei genitori.
C’è qualcosa che non va.
Eppure è tutto a posto.
E’ tutto merito del nostro Francesc0.
Il quale coi suoi scritti piace e risulta avvincente per tante generazioni, senza esclusione, da quasi cinquant’anni a questa parte.
L’incontro con Guccini scorre sul tema “Il tempo e la memoria nei testi di Guccini scrittore e cantautore”. E il tempo è presto sulla parola dei moderatori e del nostro.
Quando vengono elencate le opere letterarie, spiegate sommariamente ma non superficialmente, immagino il mio regalo a un amico del trittico Croniche Pafaniche e Vacca d’un cane e Cittanova blues; ma in realtà mi rimprovero un poco di non aver ancora letto il primo Francesco scrittore; ma che pretendere da me che anche la conoscenza del cantautore è lacunosa.
Sono veramente tanti i testi da leggere. Fortuna che si finisce col Dizionario, e Nuovo Dizionario, delle Cose Perdute, che io ho già divorato in tempi non sospetti.
Poi parla lui.
E io prendo appunti sull’inseparabile quaderno.
Dice che non ci sono consigli per gli scrittori novelli, non c’è un consiglio per uno stile o un argomento. Spiega che lo scrittore è come i maiale, più lo riempi più rende coi suoi prodotti, e del maiale non si butta via niente, e se lo riempi di roba buona può uscirne solo roba buona. Io l’ho intesa così: “Leggendo tanto qualcosa salta fuori, ti rimane attaccato, e rimane lì pronta per essere scritta”.
Si racconta che in passato gli è capitato di dire, sconsolato, osservando l’orologio appeso al muro, “un secondo in meno, un secondo in meno, un secondo in meno…” da vivere, e che la lancetta dei secondi serve solo per far vedere che l’orologio funziona.
L’inizio della disquisizione sul tempo, che passa, che non si ferma, è ben cominciata.
Dice che l’uomo, come ben si sa, è l’unico animale che sa che c’è una fine. L’uomo ha coscienza, quindi sa bene che prima o poi finirà la vita, quindi sa bene che il tempo per sé non è per sempre.
Una volta imparato questo sembra si debba vivere per risolvere il dilemma. Non sapendo quanto sarà domani, lungo o corto non è dato sapersi, l’unica soluzione è vivere al meglio il presente (qualcuno dice essere un dono, ndcs) senza dimenticare il passato fatto di ricordi, che aiutano a vivere il presente verso il futuro, giacché è l’unica roba certa proprio perché già accaduta, dunque il ricordo che ognuno ha è la base per affrontare il momento ora e adesso, e i giorni a seguire.
Spesso si tende a ricordare, in effetti, solo le cose belle della vita, passata. Io perplimo tra me stesso, riflettendo sul fatto che dipende molto molto molto da quel che sono le cose accadute e che tipo di ricordo lasciano, che sono certo certi traumi ed esperienze non potranno mai essere dimenticati. Francesco accenna ad esperienze personali, e dice che col tempo che passa certi ricordi che riportano a robe non belle poi diventano affievoliti, e a volte piacevoli, con quel po’ di leggerezza e sarcasmo che aiutano a ricordare meglio. Appunto.
Se non sappiamo da dove veniamo dove potremmo andare?, si chiede ricordando il suo Radici.
Poi, quasi d’improvviso, vengo schiaffeggiato, e le mie sensazioni si moltiplicano, e mi emoziono forte, e non posso non essere contento del fatto che il nostro Guccini abbia scritto quello che ha scritto. Riporto quindi alcune strofe del testo della canzone Autunno:

Rinchiudersi in casa ad aspettare qualcuno o qualcosa da fare,
qualcosa che mai si farà, qualcuno che sai non esiste e che non suonerà...
Rinchiudersi in casa a contare le ore che fai scivolare
pensando confuso al mistero dei tanti io sarò diventati per sempre io ero...
Rinchiudersi in casa a guardare un libro, una foto, un giornale
e ignorando quel rodere sordo che cambia io faccio e lo fa diventare io ricordo...

E la malinconia mi assale, poi un sorriso, poi la voglia di proseguire con le mie idee, per davvero, ancora.

L’incontro termina con diverse domande dal pubblico, precise e profonde, alle quali Francesco risponde sempre, condendo sempre coi propri aneddoti.

Quanto starei ad ascoltare i suoi aneddoti.
Già. E’ proprio ora di leggere qualcosa in più del nostro Guccini da Pavana, poco oltre Porretta Terme.

Alla prossima, foss’anche solo l’anno prossimo come è stato quest’anno.

(grazie 'Dele per la compagnia, e per la pizza)

martedì 20 gennaio 2015

Rappresentazioni familiari, e quel che porti con te

Ho letto questo testo con apparente difficoltà, infatti spesso, girando le pagine e gli argomenti, mi sono trovato davvero contrariato, cioè per meglio esprimermi, proprio perplesso.
Credo di essere troppo sensibile davanti a certi argomenti, ne rimango affascinato, e mi interesso, che mi luccicano gli occhi, ma con la volontà di rimanerci lontano almeno un passo, una distanza di braccio, o forse più.
Mi è piaciuto indagare, e farmene un’idea, e ben sapendo che nemmeno chi pratica molto ci capisce tutto e del tutto, rimango comunque a una certa distanza, che non ho sentito di farmene prendere del tutto. Certo non disdegno l’ascolto, e o la partecipazione, ma sento ancora quell’alone di incredulità addosso, e per quanto mi senta avvolto dalla curiosità muovo passi timorosi, forse lacunosi, comunque uno alla volta, per alcuni troppo pochi (?), domandandomi sempre da quale punto sono partito e dove credo stia andando.
Fatto sta che sollecitato da alcune persone ho voluto leggere queste pagine. Dove ho trovato molto di buono e qualcosa di incerto, altro di poco interessante, altro ancora da indagare se le cose della vita girassero in un modo, e sempre col dubbio della domanda, che non sarà mai l’ultima, perché alla fine non posso e non voglio fermare il criceto che mi corre appresso.
Ora, cercando di fare ordine, il che è tutto dire, voglio appuntarmi come mi è consueto alcune robe, quelle più o meno mie, in merito alle Rappresentazioni Familiari, e altre costellazioni.

Gli argomenti sono molteplici, perché la famiglia di una persona si dice non sia esclusivamente quella in cui vive, prima coi genitori successivamente una propria altrove, giacché queste forme familiari assorbono anche l’origine propria, del e nel passato, dal più diretto al più remoto. Tuttavia per me la famiglia non è essenzialmente solo quella dell’anagrafe, che io già mi appunto prima di tutto gli amici, e non sto qui a esprimere la mia idea di amicizia.
Per le famiglie, comunque, viene spiegato che quando i genitori si macchiano di gravi colpe nei confronti dei figli, perdono i loro diritti di genitori. Si devono allontanare dai propri figli, e questi li devono lasciarli andare, e questo caso, per quanto essenziale e vero, nella vita di sempre non è semplice, né da parte dei genitori né tanto meno da parte dei figli. Mi sento coinvolto e toccato quando viene spiegato che i bimbi che non passano tempo coi genitori, e quanti ce ne sono?, sentono questa mancanza con frustrazione e abbandono e si immagina che questi, i bimbi, una volta grandi avranno difficoltà ad abbandonarsi in maniera completa all’amore per il proprio partner, vivendola con rabbia, (mica sempre vero!, e ne ho le prove). Si conclude spiegando che la rabbia è solo un surrogato: il vero sentimento è il bisogno di contatto con gli altri. Anche qui dissento, anche per esperienza personale, e mi domando quale possa essere l’eventuale componente di una coppia che non voglia il contatto?, cosa ci sia di più bello di un bell’abbraccio?, pieno di sentimento, per esempio; anzi la faccenda andrebbe vista anche fuori da una coppia, per esempio pensando all’abbraccio dei componenti di una squadra, sportiva o di lavoro che sia, un gruppo di amici, coi compagni di viaggio o di vacanza.
Si parla di amore, e di rapporto di coppia coi figli, e si spiega l’assumersi la responsabilità della propria vita, e il valore che le si dà. Tra la coppia, e tra le persone in genere più ampiamente osservando, viene espresso un concetto che mi piace tanto: noi stessi ci sentiamo insicuri, a volte feriamo gli altri o ne siamo feriti, e coraggiosamente continuiamo a provare. Perché è ormai certo che si deve sempre provare, e ancora e ancora, e non c’è altro da voler insegnare a chi deve capire.
Poi si espone che la felicità in una relazione dipende dal libero scambio tra il dare ed il ricevere. Uno scambio limitato produce un misero guadagno. Più lo scambio è vasto, più profonda è la felicità. Questo però ha un grosso svantaggio: lega ancora di più. Chi vuole la libertà deve dare e prendere solo in piccole quantità, e lasciarsi andare solo in maniera limitata. Prima parte da sottoscrivere. La seconda parte mooooooolto meno, “Chi vuole la libertà deve dare e prendere solo in piccole quantità, e lasciarsi andare solo in maniera limitata” a mio avviso è restrittivo ai massimi termini, se si parla d’amore non si devono trattare dei limiti, se si parla d’amore si dà, si scambia, nella speranza di ricevere: ecco lo scambio d’amore. Ciò non toglie quanto sia reale che si può dare solo quanto l’altro è disposto a ricevere, e per quando si è in grado di dare. Se si dà più di quanto l’altro sia pronto a ricevere, il partner si sentirà oppresso, sarà ancor meno disposto a dare e lo squilibrio risultante aumenterà sempre di più. Appunto, perché altrimenti si sbilancia il tutto, e se una roba si sbilancia poi cade, rotola, ed è un casino ritirarla su.
Molto educante che in un rapporto di coppia, anche se questo finisce, è importante che i due partner si rispettino. Questo rispetto è indispensabile dopo la separazione, specie se si hanno figli, altrimenti essi diventano vittime delle tensioni tra i genitori. Per esperienza personale, (fa te!). E volendo si dovrebbe essere in grado di dire certe robe, che spesso vengono pensate ma trattenute, che spesso si danno per scontate ma che non lo sono, tipo: “Ti ringrazio per quello che ho ricevuto da te. Puoi tenerti quello che hai ricevuto da me” e “Mi assumo la mia parte di responsabilità per il fallimento della nostra unione, e ti lascio la tua parte di responsabilità per questo fallimento”.
Come diceva una nonna: una noce non fa mai rumore da sola. Ecco. Perché altrimenti poi la persona che non riceve i pensieri e le parole poi se ne fa un’idea personale che spesso non rispecchia la realtà del pensiero dell’altro. Questo dovrebbe valere per tutti i gruppi di cui si fa parte, sportivi, lavorativi, di amicizia. Volendo, e riuscendo, si dovrebbe sempre dire la propria idea, il proprio pensiero. Volendo, riuscendo.
Si racconta anche che quando un figlio deve scegliere tra un genitore e l’altro, si trova di fronte ad un dilemma insolubile. Chi da bambino è stato costretto a farlo, da adulto troverà difficile prendere qualunque decisione. Infatti è vero, mai chiedere a un figlio di scegliere tra una o l’altro genitore, che è pure una domanda ignobile, giacché un figlio non sceglierà mai né l’uno né l’altra, finanche ad arrivare a scegliere se stesso. Il fatto che poi un figlio costretto a fare una scelta così avrà difficoltà nelle scelte della vita mi lascia perplesso, che io da buon cagadubbi mi chiedo non sia essenzialmente questa costrizione a causargli difficoltà future, proprio perché se si arriva a costringere a tale risposta un figlio non voglio immaginare quali altre costrizioni possano essere imposte.
Si espone che quando una persona è arrabbiata con un'altra vive una sorta di blocco e fino a quando sono arrabbiato non sento il dolore e la perdita. Solo quando lascio andare la rabbia e smetto di incolpare me stesso o l’altro, posso affrontare il dolore e la perdita. La verità è che l’arrabbiatura è già un punto di partenza sbagliato, quindi tutto quello che ne segue può essere problematico, quindi anche valutare e affrontare il dolore che si prova rimane un problema e il vuoto creato da un evento di contrasto risulta difficile.
E’ possibile che certi eventi intralcino il cammino di una coppia in modo mai apparente, fino a fare inciampare il cammino, e solo quando si chiarisce che c’è stato un aborto e i partner lo riconoscono, è possibile la riconciliazione. Che come tutte, dalle più alte alle più basse, dalle più grandi alle più piccine, le robe in una coppia vanno parlate spiegate e non trattenute, qualunque sia quell’argomento e qualunque cosa sarà dopo.
Mi piace molto il …chi segue la corrente non ne decide la direzione. Si limita a seguirla. E ci sono alcune domande che portano a una sorta di sentenza: in un rapporto se starò attento a certe cose otterrò certi risultati. Ma questa è già una specie di controllo che è in contraddizione con il concetto di relazione. Come dare torto a tanta verità?
Rimanendo in tema di relazioni, viene spiegato che uomo e donna sono diversi e pertanto non arriveranno mai a conoscersi completamente. Questo li affascina, ma li spaventa anche un po’. Chi ha paura può facilmente diventare aggressivo per difendersi. Certo, la paura porta o a mortificarsi in un angolo, o ad affrontare tutto con aggressione. Ma si dovrebbe trovare una formula dove la relazione non sia solo tra uomo e donna, ma anche diversamente tra adulto e bambino, tra colleghi, tra uomo e uomo o donna e donna, tra nonna e mamma, tra figlio e papà. Si dovrebbe. Che le relazioni sono ovunque.
Un’altra parentesi tra un lui e una lei è illustrata con quando tu e tua moglie vi siete decisi per la fecondazione artificiale tramite un altro uomo, il vostro matrimonio è finito. Era una conseguenza inevitabile. E a me nascono immagini eventuali, e sento addosso l’importanza di certe scelte, da non fare così tanto per così.
Viene raccontato che chi continua a respingere e reprimere un sentimento, crea una sgradevole tensione interiore, e che “nessun uomo è un’isola”, e dire “…tu sei uno di noi” a qualcuno che appartiene a un gruppo fa sentire questo qualcuno più sicuro di sé.
E’ toccante il passaggio L’amore che lega un bambino alla sua famiglia è immenso. Un bambino è pronto a sacrificare la propria vita senza esitazione, se ciò è necessario per la sua famiglia. Vuole appartenere ad essa con tutte le fibre del suo essere; pertanto, condivide il destino e il dolore degli altri membri della famiglia. Mi emoziono e mi rivedo quando ero piccolo ad osservare molto i grandi, in casa, a scuola, al parco, per la strada.
Viene trattato, ovviamente, il concetto dell’aldilà e dei propri defunti, che facenti parte dell’insieme famigliare portano la loro influenza nelle generazioni successive. A un certo punto mi domando “perché non siamo in grado di comunicare da soli in qualche modo coi nostri defunti?? Che cos’è allora l’andare al cimitero o osservare una foto-santino?”, proprio mentre si esalta il concetto e l’importanza sopracitati.
Ho avuto l’impressione che solo con la rappresentazione famigliare si possa avere un rapporto con chi, vero o no, mi ha influenzato anzi mi sta influenzando.
Allora mi sorgono un sacco di dubbi, che spesso rimangono lì. Ma nemmeno tanto.
Si dice che noi vogliamo consigli che ci guidino, e cerchiamo verità stabili. Nessuno ama l’incertezza ed il dubbio. Credo che dipenda dalle persone, molto dai punti di vista, e dalle occasioni, e dalle scelte che si fanno; ché ci sono luoghi e momenti che è viva l’incertezza, mette quel pepe che serve, mentre altri che è meglio evitarla. Come altre volte è tutto corretto, ma anche il contrario.
Allora mi sovviene che proprio perché si impone un punto di vista potrebbe non essere del tutto reale ciò che si vede o vive nelle rappresentazioni. Più o meno come quando si segue ciecamente una dottrina o una religione: se queste non accettano il mio dubbio, e le mie perplessità, le sento opprimenti e poco adatte.
Nelle rappresentazioni ci sono il partecipante e i rappresentanti, questi vivono le costellazioni in prima persona; viene puntualizzato, poi, che lo stesso partecipante potrebbe vedere, se solo volesse. La verità è scioccante solo per chi non desidera vedere la realtà.
E come tante realtà vorrei viverle, per quanto possibile, a modo mio.
E mi piace molto quando si specifica che io guardo sempre come se fosse la prima volta, perché la verità di un dato momento viene sostituita da quella del momento successivo. Quindi ha davvero ragione quel tipo che canta che vuole “che ogni attimo sia sempre meglio di quello passato”, ma questa è un’altra storia.
Rimango perplesso con “Questo o quello” è il principio su cui ci basiamo, NON “Sia questo, che quello”. Contraddirsi è proibito e considerato segno di debolezza di carattere…, non che non condivida, anzi, il principio espresso evita discussioni, prevede una scelta ben precisa, ma non sempre nella vita è la cosa giusta o migliore.
E la debolezza di carattere potrebbe non essere tutta legata alla contraddizione, potrebbe esserci ben altro sotto, o sopra.


Questi sono solo pochi appunti, le orecchie in basso nelle pagine, giacché in alto ce n’erano già, sono molte di più.
E molte sono anche le volte che mi sono fermato a riflettere su quanto appena letto, e su quanto della mia vita, prima, dopo e durante.
L’argomento è troppo complesso per essere eviscerato bene qui in mezzo alla rete.
Meglio leggere. Farsi un’idea. Partecipare. Farsi un’idea.
A me è capitato, ed ho provato a descriverla qui Costellazioni, la famiglia, gli appunti


Oggi di quei giorni ricordo nitide alcune immagini che tengo qui da me.
Se è vero che ero novello, è pur vero che so quello che sento, che se mi propongo solitamente è perché lo sento forte, che altrimenti meglio lasciare perdere e rimanere defilati.
Quindi non ho ancora capito, e non ho ancora digerito, per quale motivo la terapeuta mi abbia imposto una scelta di rappresentante, giacché io sentivo in un modo, come tante volte inspiegabile; mi sono sentito forzato, e quel lato della costellazione non mi è andata giù. E rimane lì. Non mi è sembrata mia, o non mia del tutto. E, rimanendo in tema di sensazioni e di sentire, non capisco come mai la terapeuta in seguito a una costellazione che non era la mia emettesse una sorta di verdetto guardando fisso negli occhi miei anziché la partecipante; dal mio punto di vista io non dovevo essere coinvolto, proprio perché la mia figura non era stata rappresentata; c’era rappresentato una sorta di generico, quindi il tutto si svolgeva in un indefinito e ipotetico mio io; e la distrazione, perché questa è stata, della terapeuta mi lascia il dubbio della domanda principale, iniziale e finale: chi mi garantisce che tutto sia svolto senza speculazioni, senza ingerenze, che tutto si svolga in maniera limpida e non limitata da punti di vista del tutto personali?
Io stesso all’inizio avevo una considerazione dei potenziali rappresentanti come me che alla fine era ben diversa. Alla fine non ero più vergine di loro. Quindi, assieme a tutto il buono che ho raccolto quel giorno, mi sono portato con me anche dei dubbi, e le mie solite perplessità.
Non voglio mica asserire che sia tutto sbagliato, ancorché io stesso ho rappresentato, e sentito, sentito forte, e ho pure sentito di essere me stesso tutto, di sentire di essere così e non in altro modo (e sono stato pure richiamato a posteriori), che certe robe le ho vissute in prima persona.

Rimango della mia idea. Sarà per poca convinzione, forse.
Con certe cose si deve andare cauti.
Però sono curioso. Molto.

E spero tanto non ci siano persone plagiate dall’argomento.
Lo spero davvero.

(tutto questo è pur solo quello che ho capito, sentito, assorbito, io. Niente di più)

Bertold Ulsamer, Senza radici non si vola - La terapia sistemica di Bert Hellinger, Ed. Crisalide (Collana di Psicologia)