giovedì 5 novembre 2015

L'amore, il telefono fisso, il Moroz, e le Tartarughe piene di Rock

Devo subito ammettere che lo conosco. Anche se lo conosco poco. Credo di avere avuto a che fare col suo “intrattenimento” abbastanza da permettermi di fantasticare sui suoi propri pensieri.
Lo leggo spesso in rete, in quel grande calderone che ormai contiene un po' tutti, compresi gli inaspettati.
Quindi, alla lettura del titolo del volume in presentazione in quella libreria nel modenese, avevo avuto un moto di interessamento della serie 'voglio proprio vedere, in realtà ascoltare, dove potrebbe andare a parare con cotanto argomento'.
Va da sé che ho assistito molto volentieri alla presentazione in quella libreria nel modenese. Nonostante le difficoltà del viaggio visto che è stato sotto uno dei diluvi universali delle stagioni di questi tempi, ma ormai le stagioni non sono più le stagioni di una volta. Sulla mia strada si stava rovesciando tutto il firmamento di una serata oltretutto piuttosto fredda.



L'amore ai tempi del telefono fisso mi aveva portato il sorriso sotto i baffi e i ricordi erano andati lontano, in quel corridoio enorme dove insieme si viveva in quegli anni che furono.
Presentazione andata bene, senza particolari frenesie, e senza particolari entusiasmi.
Ma il mio proprio sorriso era rimasto lì dove si era creato, ancorché enfatizzato da alcuni inviti di natura letteraria (scriviamo così).
Acquisto, richiesta di autografo, sorriso, accordo di consegna, lettura.
In realtà la lettura non è stata esattamente immediata. Ma tant'è, ora sono qui a scriverne.
Il libro è composto da vari “L'amore ai tempi di...” e sono tutti ben articolati.
Non a caso quello rimasto più impresso è il primo, quello del titolo del libro, che è anche più o meno ovviamente il primo in senso cronologico.
Come diavolo era L'amore ai tempi del telefono fisso?

Cavolo i ricordi viaggiano a velocità spedita. E quanto si legge aiuta molto il percorso del viaggio.
Dunque mi ritrovo, io lettore, con la cornetta pesante nelle mani, bollente, accanto all'orecchio, bollente, in attesa di ricevere una voce di là dal 'tu, tu' e con la vivida speranza che nessuno, né in casa mia né nel raggio di migliaia di chilometri, possa avere anche solo la minima possibilità di ascoltare finanche il mio solo respiro.
Ecco, cosa è stato L'amore ai quei tempi. Che nulla, quasi, ha che a vedere con L'amore dei giorni nostri, districato sempre più tra messaggi gelidi, post sgrammaticati, immagini eloquenti che non vorresti aver visto mai, e supposizioni di quel che la tua ipotetica (?) dolce metà possa combinare mentre tu ti arrovelli il cervello per cercare di capire queste brutte sinapsi tra le diavolerie elettroniche.
Ecco, mi sono sfogato.

Quanto ho sorriso durante la lettura? Tanto.
Il sorriso dapprima era romantico o malinconico, pieno di sospiri, poi si è pian piano trasformato in qualcosa di più rigido, e spesso è stato freddo e amaro, come un brutto cattivo caffè fatto malvolentieri alla moca.
Poi il libro ha preso una piega diversa. Lo si nota bene leggendo l'Indice posto in fondo nelle ultime pagine. L'argomento cambia, a volte notevolmente, ma nemmeno troppo.
Poi è la volta delle Tartarughe Rock. E lì il mio lettore impazzisce. Di gioia e di tutto quello che può andarci a braccetto.
Viene presentato un ambiente umano-paesaggio che sembra di esserci, o di esserci stato.
E mi ritrovo molto, in quelle pagine, ed è tutta colpa del Moroz, al secolo Gianluca Morozzi.
A quel punto la matita prende il sopravvento.
A quel punto le pieghe orecchiate alle pagine hanno il loro cazzo di perché.
E' questione di pelle. Sono quelle sensazioni a pelle.
Sono quelle sensazioni che spesso non si sbagliano mai.
Ora, come posso esimermi dal riportare quanto la lettura mi ha ficcato dentro?
Non posso... e così sia...
A pg. 81 “Dove le capre, culturalmente, erano molto più avanti di noi” rimane una tatuaggio indelebile di una generazione, si possa passare il termine 'ignorante', aperta a tutto quello che ai tempi il mondo poteva offrire, potenzialmente, e ben radicata nella propria realtà di territorio (mi era venuta in mente la parola 'terrena' ma ho evitato per scansare equivoci).
Subito dopo, alla pagina successiva, la spennellata dell'autore aumenta il quadro verosimile al lettore, me medesimo: “...e noi giovani calciatori partivamo per i campi della vallata con gli zaini sulle spalle, senza tute o borsoni della società, ma con le scarpette sempre pulite”.
Bang! Colpito! A segno! Perfetto!
A quel punto mi sono detto 'sono tuo, mi hai inlamato per bene'.
Quelle cazzo di scarpette (da calcio) sempre pulite le conosco per bene!
La lettura sta crescendo. Il libro mi tiene lì.
In un grafico dove venisse rappresentato l'interesse la mia curva sarebbe ben oltre la scala massima.
Ora il verbo è fagocitare.
Ci sono punti da tenere ben segnati, come quei detti da ricordare durante i ragionamenti con gli amici, o quegli aforismi da scrivere sui muri o sui banchi o ai margini delle pagine dei libri o sulla rete. Naturalmente senza scordare di citarne l'autore.
Pagina 84 si nota “Ci sono cose che ti cambiano la vita al punto da dividerla in due, in un prima e un dopo, e il passaggio tra il prima e il dopo è netto, preciso e indimenticabile”. Esatto, preciso e indimenticabile, e si dovrebbe farne una buona scorta di momenti così precisi e indimenticabili, anche se non tagliano in due la vita ma semplicemente la cambiano, e la rendono qualcosa di diverso che dopo non sarà mai più come prima. E ancora “Noi ci eravamo fatti cambiare la vita da un concerto”. Ma dai?!? Un concerto che ti cambia la vita è qualcosa di avvolgente, come quelle pellicole invisibili che ti si appiccicano alla pelle e penetrano sotto stringendoti tutto in un vortice di sensazioni. E poi “...ma con la promessa di un paio di birre gratis avevamo scelto la musica a discapito del calcio”. Sono scelte, sia le birre sia le compagnie sia il non calcio almeno per una volta. E io lo so bene ché anche dalle mie parti è capitato qualcosa del genere e un piccolo poster in un quadretto ne è la testimonianza.
Pagina 85 (mica tanto in là) appare la definizione di concerto. Una buona definizione di concerto: “Tu non lo sai mica, all'inizio, che sta per succederti una cosa così. Bevi la tua birra, ti sistemi sotto il palco, si spengono le luci, sei un tipo di persona. Un'ora e mezzo dopo si riaccendono le luci e sei un altro tipo di persona. Basta guardarti in faccia, e sei capisce che in te tutto è cambiato”. Punto. E ancora: “Ci sono dei codici segreti, in ognuno di noi, dei generatori di emozioni che vengono attivati da una particolare combinazione di note, da una certa vibrazione musicale. Quando il generatore si attiva, tu e la musica diventate una cosa sola. E dopo, come per ogni dipendenza, tutto quello che vuoi è averne ancora, e ancora e ancora”. Cioè: generatori di emozioni, combinazione di note, vibrazione musicale, una cosa sola, dipendenza, averne ancora. Ecco!
E qui si potrebbe anche chiudere la lettura.
Il climax personale è raggiunto.
Però non basta. C'è pure la band che suona il concerto, tra le pagine 86 e 87, ed è per forza vestita della tua essenza, oppure sei tu che vesti della sua essenza. Comunque una band, o banda (!), viene vista da “una ragazza non bellissima, ma non banale” “come chi ha visto spalancarsi i cancelli dell'aldilà”, che la si potrebbe seguire, la banda, o band, “in capo al mondo e anche un po' più in là”. Perché quelli lassù sul palco che propongono la loro musica, la loro arte, meritano considerazione, sempre, specialmente se “avevano lasciato spegnere l'ultima nota dell'ultimo pezzo, avevano salutato i dodici spettatori rimasti come avrebbero potuto salutare San Siro pieni in ogni ordine di posti, ed erano scesi dal palco”.
Ecco, un concerto così, suonato da una band così, non può non cambiarti la vita.
A questo punto il mio io lettore non scende più a patti con niente e con nessuno.
Ora vuole solo godere della scrittura, della lettura, e dell'immaginario che per forza di cose si viene a creare nella sua testa mescolata. Quindi sospira assai sul “Ed io, lentamente, facevo il mio bel viaggio nel mondo dei sogni” di pagina 93.
Quindi chiude un attimo le pagine che stringe in pugno sul “E qui smetto di leggere, perché sono sensibile e mi viene da piangere. Anche nello stato discutibile in cui sono ridotto adesso” di pagina 95.
Lo stato discutibile in sui sono adesso, c'hai presente quanto è vero?
Però, cazzo, poi arriva l'apoteosi per davvero.
Parte 8 di questa parte di libro, di questo racconto particolare.
Le due pagine da ricordare e rileggere sono queste: 99 e 100.
Da qui in poi nulla è più come prima.
Con la scusa del rock and roll, (cito Luciano), si descrive la fatica e la voglia di una band, “...questo esercito di nuovi chitarristi e bassisti e batteristi e cantanti e tastieristi che si sbattono per trovare la sala prove più economica”, per riuscire ad emergere e per cercare di proporre la propria arte, che di quello si tratta. E con questa descrizione, “ecco, mi vengono in mente le tartarughe di mare”.
La perplessità è lecita, ma mica tanto.
Per chi non lo sapesse: le tartarughe di mare nascono in spiaggia, escono dalle uova insabbiate da mamma tartaruga, e piccole e lente, appena nate, cercano la vita, tentano di emergere, camminando e scivolando verso il mare, mentre sopra di loro vola famelico ogni sorta di uccello predatore affamato e in attesa esattamente di quel momento, cioè della schiusa delle uova insabbiate sulla spiaggia delle tartarughe di mare.
La chiusura è da applausi, è da scrivere sui muri, è da ricordare bene. E':
Ma la cosa che ci frega, a noi, è che arrivare al mare non è del tutto impossibile. Qualcuno ci arriva, a quell'acqua maledetta, quindi si può fare, quindi ci si riesce, no?
Se sapessimo che è impossibile, che è un'impresa velleitaria, be', la affronteremmo con lo spirito nobile e goliardico con cui si affrontano le imprese velleitarie. E invece sappiamo che qualcuno ce la fa.
E allora, pensiamo, perché non dovremmo farcela noi?”

Qui la lettura si interrompe.
Non me ne voglia il buon Moroz, ma il mio io lettore accenna a un 'a me basta così' e 'qualsiasi cosa ci sarà dopo sarà irrilevante'.
In realtà per rispetto nei confronti del libro, e nei confronti dell'autore, la lettura è terminata all'ultima pagina dove è scritto “Finito di stampare nel mese di Gennaio 2015 da Printì (AV)”. Come previsto non ci sono sobbalzi particolari, non ci sono pagine che il lettore abbia stretto per un momento in più rispetto alla durata della lettura stessa, ecco.

Più o meno così è stato.
La lettura de L'amore ai tempi del telefono fisso in effetti mi ha lasciato tanto delle amate Tartarughe Rock.
E una riflessione in merito al telefono, fisso o cordless, portatile o cellulare: ogni tanto mi capita di rimpiangere 'il non sapere chi sta chiamando', chè oggi abbiamo macchine elettroniche che permettono quanto meno di leggere il numero chiamante, e di riconoscerlo il più delle volte, e di poter scegliere se poter o voler o dover rispondere, e si può valutare pure in quanto tempo rispondere, calcolando all'istante la lunghezza dell'attesa del 'tu, tu' che sente chi chiama. Certo è comodo. Certo senza si brancolerebbe ancora nel buio.
Ma ho come l'impressione che questa possibilità metta ancora più distanza tra noi, in questo tempo che fatico a comprendere, dove le relazioni umane sono fin troppo controllate, non tanto dal 'grande fratello' ma piuttosto da noi stessi.
E tutto questo è un peccato.

Niente, alla fine, le tartarughe ci arrivano sempre al mare. Punto.


L'amore ai tempi del telefono fisso, Gianluca Morozzi, Ed. Ferndandel

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