lunedì 28 luglio 2014

Guccini e il suo Nuovo Dizionario

Compleanno particolare quest’anno, per punti di vista diversi.
Particolare che vuol dire tutto e niente, come dire insolito e o singolare.
L’occasione è la presentazione di un libro, l’ultimo di Francesco, e l’invito a partecipare. Che alla fine in effetti le presentazioni di libri piacciono, e piacciono le parole che ne escono, quelle del moderatore come quelle dell’autore e perché no a volte anche quelle dello spettatore.
Il luogo è di quelli da rimanere senza fiato, soprattutto per te che non lo avevi mai visto se non nelle navigazioni da voyeurista. Il luogo è grande e accogliente, e a gente spinge per entrarci.
Ti avvertono pure di sbrigarti che altrimenti rimani fuori. Ma quando arrivi è pronta lì la tua sedia tenuta vuota per te. E ringrazi di tutto ciò.
Poi osservi in giro. E come un bimbo sull’ottovolante il tuo sorriso naviga beato ed ebete in quel grande cerchio che è l’auditorium. Ci sono curiosi e sorrisi in giro, ci sono quelli seri apparentemente più colti degli altri, e ci sono quelli che lo vogliono vedere fin da vicino.
Tu rimani lì in alto, nel tuo posticino, in compagnia, ad attendere che tutto abbia inizio e che tutto si svolga per bene; e non vedi l’ora di raccogliere ogni virgola di quel che sarà.
Ti piace proprio ascoltare quella voce. La senti addosso. La senti che sembra quella di un miracolo.
A volte non ti giungono bene le parole perché c’è chi fa brusio, c’è chi sorride ben prima della battuta o del termine dell’aneddoto.
Osservi bene tutto. E lo vedi stanco.
E capisci perché ha deciso di fare basta per i concerti dal vivo.
Come direbbe lui, quasi, “quand lè piò la fadiga dal gòst le mèi lasér ster”, che così scritta come si dice, quasi, dovrebbe voler significare “quando è più la fatica del gusto è meglio lasciar stare”.
Poi tutto scivola via in un’ora e passa di buone parole, come da speranze iniziali.
Non c’è che dire, ti è proprio piaciuto.
E dopo la fila per l’autografo sul suo tuo libro appena ricevuto è immancabile.
E la fila è lunga, ma porti pazienza come spesso.
Quando arriva il tuo turno ti chiudi un po’ in te. Non osi chiedere oltre quella firma che lui pone sorridendo ma stanco, molto stanco, troppo stanco.
La firma, le firme, spesso sono illeggibili, proprio perché firme.
Ma quelle che pone lui a nastro, così quasi per porre, sono quasi scarabocchi.
E ti dispiace, mica tanto per quello che sarà su quella pagina che sarà sempre tua, ma per lui e per quella stanchezza che si palesa a ogni respiro.
Le pone, che sono due, e una come da istruzioni a dedica a me, al mio nome abbreviato come da amico, proprio sotto alla dedica di chi mi ha donato il libro con le sue parole di lui “sono fiero del mio sognare, di questo mio eterno incespicare”.
Mica male. Francesco Guccini da Pavana ha ragione. Anche lui.

Alla fine sono i saluti, i grazie, i ci si sente alla prossima.
Però te non sei in pace con te. Hai quella lettera, che sono appunti di una e più strofe di una sua canzone, quella delle “quattro del mattino e l’angoscia e un po’ di vino”…
E vorresti davvero una firma lì sotto.
Allora torni sui tuoi passi e ti rimetti in fila.
E sei l’ultimo della fila. Sarai la sua ultima fatica, quasi.
E chiedi di mettere il suo nome e cognome, cercando di spiegare cosa andava a firmare, e che ci starebbe bene anche un Buon compleanno vista la giornata particolare.
Lui capisce poco e o male, oppure te come sempre spieghi a singhiozzo quello che sarebbe meglio fosse più scorrevole e ovviamente ottieni qualcosa che non sai.
Ringrazi.
Muovi passi.
Leggi per bene.
E sorridi. Sorridi bene.
Lui non aveva capito.
Tu non avevi spiegato bene.
Però il risultato, alla fine, è quello che avresti voluto.
E ora tutto è dove dovrebbe essere, appeso alla parete della musica e di altro.
E ora questo libro è assieme all’altro, già letto in tempi non sospetti, da rileggere quando sarà il momento.

Nuovo dizionario delle cose perdute, di Francesco Guccini, ed Libellule Mondadori.



Letto a fondo, coi giusti tempi. Con i suoi tempi.
Letto spessissimo con quella erre tutta particolare.
Letto coi sospiri che sembrano i suoi.
Letto con la sua punteggiatura e non con la tua.
Letto da ignorante giacché tanti termini te non li conosci e non li usi e e e.
Letto che la malinconia, viste le cose perdute, la fa da padrona, regna sovrana.
Letto che hai pensato ai nonni e al nonno.
Letto davvero intensamente.

Le parti dell’osterie ti riporta a tempi che non hai vissuto perché mai studente universitario.
Le parti dell’autostop ti riporta a tempi che avresti voluto vivere.




Poi l’ultima pagina, nella quarta di copertina, come l’ultima thule, il suo sorriso, e la sua erre, per sempre.

lunedì 14 luglio 2014

Il prato era spento…

Esperienza già vissuta, ma in modo diverso, come sempre.
Non può mai essere la stessa roba.
Oggi è diverso da domani e da ieri.
Così pure i momenti.
E le esperienze.
Vanno vissute proprio per quello, e non solo viste, magari da lontano, magari solo per sentito dire, magari durante un happyhour dove costa tutto la metà, magari solo da addormentato.
Le esperienze andrebbero raccolte tutto, con tutto quello che c’è. Ecco che ci sono momenti che non hai mai abbastanza e poi invece ci sono quei periodi che non ne puoi più, e allora lasci fare ad altri.

Mi è sempre piaciuto esserci, a modo mio, magari solo dal mio angolo.
Quando mi capita di non riuscire a esserci preferisco non interessarmi, non pensarci. Sarà forse per soffrirci di meno.

Ma per sabato scorso s’era deciso di andare, di esserci, nonostante il prima il dopo il durante.

Ed è stato diverso, come sempre.

Le previsioni non promettevano nulla di buono, proprio per quelle ore fatidiche.
Le previsioni sono arrivate puntuali nel primo pomeriggio.
E allora a raccogliere tutte le idee possibili per evitare ai massimi i disagi, perché nonostante i problemi che dio meteo sparava sulla terra noi si voleva viverle quelle ore buone.
E chissenefrega se sono robe che si fanno solo a vent’anni.
Che questo non è proprio vero un cazzo di niente.

E allora, affidati i miracoli a chi sa sopportarli e gestirli, che tanto siamo tutti adulti, s’è girato lo sguardo dalla parte giusta, e via… via… fino a là…
E allora è stato che là in fondo era scuro.
E allora è stato presto il momento dei targicristalli a manetta, e la velocità ridotta, e le parole a girare, mie e sue, dentro le orecchie, fuori dalla bocca, dentro dove non si guarda e fuori dove serve.
E allora sono stati messaggi e telefonate a cercare notizie e umori e sensazioni.
E allora è stato che i fulmini erano davvero tanti, che i lampi illuminavano più del giorno, che l’acqua era davvero ovunque.
E allora s’è presa in mano la calma e la situazione.
E allora l’uscita come avvertito era già chiusa ma noi si voleva andare oltre, dove l’esperienza vissuta aveva insegnato lo scorso anno.
E allora s’è girato dove si voleva, senza perdersi. E poi caffè e krapfen e cambio.
E allora parcheggio, solo qualche metro un po’ più in là; ed è terminato l’arrivo, ed è cominciato il dopo.
Dopo è stata la preparazione con quello che serviva, o si pensava servisse.
Dopo è stata una lunga camminata d’altri tempi, che non si faceva nemmeno a vent’anni, ma che questi giri di boa di pare metà cammino non disdegnano da qualche tempo a questa parte.
Dopo è stato il passo mal proseguito dentro al fosso; eppure sulle rive dei fossi ci si siede e non ci si tuffa…
Dopo è stato il rinvio dell’arrivo definitivo, ma c’era tutto il tempo per fare tutto quello che si pensava.
Dopo è stato il cammino, finalmente, verso l’agognato prato, e il palco, e le luci, e le voci, e gli amici, e le amiche, e le parole, e i saluti, e i sorrisi, e i gruppi che nascono qua e là.
Dopo è stato che siamo entrati ed ho esultato come sempre faccio, e nell’esultare la mia bella pozza non l’ho mica evitata, e chissenefrega tanto mica potevo asciugarmi prima di notte.
Poi ci siamo scaldati con la voglia di partecipare a un evento voluto agognato e che nemmeno la tempesta ha potuto far rimandare, che come hanno detto “a noi la pioggia mica ci frega, e siete belli…”
Poi è stato spettacolo.
Coi problemi dati dal pomeriggio tormentato.
Ma pur sempre spettacolo è stato.
Ed è stato stupendo e coinvolgente.
Forse diverso, ma è sempre Lui.
Sono sempre quelle parole, sono sempre quelle musiche, anche se non è solo per loro che si va.
Mi è solo dispiaciuto che il prato fosse spento, meno attivo del solito, più che altro è apparso cotto, di stanchezza di freddo e di umidità.
Abbiamo provato ad asciugarci come da promessa, qualcuno è riuscito qualcun altro no, chi di più chi di meno, siamo sempre e comunque rimasti lì fino alla fine.
Anzi, c’è chi, e l’ho visto bene che era inconfondibile anche in mezzo a mille, ha proseguito oltre, cantare e battere le mani, agitarsi, proprio a non stare fermi mai come solito.

E’ stato particolare tornare a Padova e ritrovare il temporale e la grandine e i fulmini.
Sarà il metà luglio, o sarà il luogo, non so, sarà da ripensarci.


E ne mancano due a un’altra data strana, forse importante, di certo non di arrivo.


I ragazzi erano in giro nel traffico, e noi eravamo là in mezzo, a quel traffico e a quel giro.
Il nostro, fosse solo per una sera.



Il tifo, lo sport, e altre distanze

Dài,
oggi scriviamo di sport, scriviamo di quel funzionamento sociale che tante volte viene detto “è una palestra di vita”.
Ma scriviamo anche di quello che non è.
A me non piace il tifo. Soprattutto un certo tipo di tifo.
Gli eccessi non vanno mai bene.

L’occasione è una partita di pallone, o calcio, o football.
L’occasione è una partita attesa come poche volte nella storia.
Gli spalti sono gremiti di entusiasmo felicità e buoni propositi in quanto i padroni di casa si sentono in grado di proseguire oltre, ed arrivare fino alla finale, sono certi di arrivare fino a vincere.
Gli spettatori tutti, quelli dei padroni di casa, che occupano quasi tutto lo stadio, sono un unico coro a incitare i propri giocatori in campo, cosicché si possa arrivare davvero fino in fondo.
Il coro sull’inno nazionale è da pelle d’oca: i giocatori in campo e tutto il pubblico possibile cantano a squarciagola; verso la fine, forse involontariamente,  la musica svanisce e rimane una unica grande voce a terminare le strofe.
Gli avversari sono ammutoliti, e se anche parlassero non si sentirebbe nulla, se anche provassero ad alzare educatamente la mano nessuno in quel momento si prenderebbe la briga di degnarli anche solo di uno sguardo. Oppure, semplicemente, non se ne curano più di tanto e proseguono la propria strada.
Per i primi minuti di gioco il coro del tifo, quello di casa, continua imperterrito e senza mai interruzioni.
Poi all’improvviso, nel bel mezzo di quel boato che sono la felicità e i canti dei tifosi locali, capita che gli ospiti facciano quello che devono, quello per il quale si sono presentati pronti pronti.
Segnano, esultano, si felicitano. E non si sentono.
Ma la storia sta cambiando.
Poco dopo, sempre con l’entusiasmo dei padroni di casa alle stelle, capita ancora che gli ospiti riescano nel gol, e la sensazione è che non abbiano alcuna difficoltà.
Lo stupore comincia ad aleggiare in campo, e pure gli spalti hanno gli occhi sbarrati ebeti.
E poi ancora gol, e poi gol, e poi ancora gol.
Basta poco meno di mezz’ora per cambiare la storia.

E’ un attimo eterno.
Non sai proprio mai cosa può esserci dopo.
Dopo un attimo. Dopo una curva.
Non lo sai mai.

Beh, la partita ora ha poca storia. Il risultato è di quelli da allibire. La facilità con la quale questo risultato è stato portato alle statistiche e alla memoria è impressionante.
Roba da non crederci.
Disperazione. Stupore. Drammi.
Sorrisi che si tramutano in smorfie con gli occhi gonfi e i magoni a legare i respiri.

Ed io che comincio a non capire.
Intendo al di là dell’aspetto sportivo, quello prettamente del risultato, che si capisce bene che è molto meritato.
Mi domando perché certi tipi di comportamenti.
Mi domando perché si arrivi a tanto.
I tifosi non sono forse tifosi?
Il dizionario online Hoepli dice che il TIFO è “passione sportiva, dimostrazione di sostegno e incoraggiamento tributato a squadre o personaggi del mondo dello sport”.
Quindi?
QUINDI??
QUINDI????

Perché, dopo quella mezz’ora assurda da una parte ed entusiasmante dall’altra, i tifosi hanno smesso di inneggiare di cantare e incitare?
Perché, dopo che i lo beniamini finanche eroi si sono ritrovati in mille difficoltà, i tifosi o ritenuti tali hanno smesso di sollecitare di sorridere di sorreggere?
Non è proprio in quei momenti che si dovrebbe stare vicini?
Non è proprio nei momenti di difficoltà che serve l’aiuto?
E il tifoso l’aiuto lo può dare solo in un modo: tifare.
Allora perché hanno smesso??
PERCHE’?
Cos’è forse non appariva più il carro dei vincitori sul quale salire quando le cose vanno bene?
Forse non c’erano più gli entusiasmi a sorreggere sorrisi?
Forse l’ipocrisia di andare e seguire il grande gruppo, o branco, o gregge, si è fatta palese sugli spalti?
Forse è proprio vero che è tutta una farsa?
Mah, rimango molto perplesso davanti a queste cose.
Quando poi sul finale della partita quelli che prima idolatravano tanto una parte si mettono a olèggiare l’altra, al di là dell’aspetto sportivo del riconoscere la bontà del gioco, mi è sembrata proprio un’offesa e un voltafaccia gabbana e tutto quello che si può voltare.
Voglio dire, si può entrare in uno stadio vestiti di un colore e SOLO perché le cose non girano nel modo giusto, che sia per demeriti propri o per lodi altrui non fa testo, cambiare il colore della maglia e addirittura rinnegarlo?? Si può fare una cosa così e poi mantenere la fiducia nello sport?
Non sarebbe stato meglio continuare a inneggiare i propri giocatori nonostante la pesante sconfitta e la pensante figuraccia?

No, non lo capisco proprio il tifo.
Arrivare a pensare che qualcuno sia un mito senza mantenere il minimo di lucidità è pericoloso.
E qui, in effetti, si tratta “solo” di sport.
Non voglio arrivare a pensare e ragionare cosa potrebbe fare l’uomo in caso di mito in altro ambito,
Anche perché è già capitato con danni enormi per l’umanità.

Rimango distante, molto, da certi modi da bar o da pub, da certi atteggiamenti da stadio, da certe parole urlate per futili motivi.
Rimango distante, qui vicino a me.

Tant’è.
Ora che tutto è terminato si può solo dire che tutto è meritato.
I padroni di casa sono stati sconfitti ancora, dimostrando la pochezza del gioco di squadra, quale è il gioco del pallone, (leggi, non è il tennis o lo sci alpino, non sei mai da solo in campo).
Quella sconfitta quindi è stata oltremodo meritata, e forse davvero ha fatto tornare a livello decente le mentalità di tanti.
Quegli avversari tanto cinici quanto capaci, alla fine, ce l’hanno fatta ed hanno vinto, non senza fatica, non senza rischiare di perdere, quella coppa che agognavano da più di vent’anni.

Alla fine, spesso, lo sport mette d’accordo tutto.

Alla fine, è stato bello vedere l’apertura del campo alle morose o mogli o bimbi o figli, che scalzi sul prato verde andavano ad accompagnare i propri giocatori propri verso la fine di quest’avventura.


E’ una di quelle cose che mi mancano di più.
Poche volte sono stato così come loro ieri sera.


E ora si gira pagina, ancora, come sempre.



martedì 8 luglio 2014

Sì, sì, qui

Ho sempre sognato di andare là in quel giorno che è già passato.
Arrivare là e fare come nella sigla.
Nel sogno, sapendo bene solo sogno, si arrivava all’aeroporto e dopo il candido atterraggio si saliva sulla Ferrari rossa fiammante, io alla guida e lei sicura al mio fianco, partenza quasi in sgommata su folta coltre di foglie gialle sull’asfalto cosicché fossero sollevate all’aria dietro di noi che si stava partendo per la nostra vita insieme.
Nulla di tutto ciò è accaduto. Nulla di tutto ciò ho provato a fare.
Quindi, non c’è proprio niente da lamentarsi.
Qui non ci si lamenta, ma si ricorda un sogno in quanto tale.
L’ispirazione dal telefilm entrato dentro per tanti aspetti, come per altri aspetti rimasto molto fuori.
Ci sono chicche che quel telefilm ha incastonato in posti incredibili, si sono ficcate lì finanche nei modi di fare agire o pensare.
O rispondere.

Sì, sì, qui.
Brevi. Secche. Precise.
Proprio come poteva capitare in quel telefilm.

Di recente ho risposto così.
Credo che lo farò ancora.

Ci sono domande che necessitano risposte.
A voce.


venerdì 4 luglio 2014

Nuvole il quattro di luglio

Lo dicono spesso.
Si vede in faccia quello che provi.
Lo dicono spesso che a volte sarebbe meglio guardare per terra.
Si vede dagli occhi quello che pensi. Se pensi. E come pensi.
Lo dicono spesso, sarà che ti conoscono.
Si vede come ti muovi. Si vede come cammini.
Lo dicono spesso che quando parli, quel po’ che parli, esce anche quello che non dici.
Si vede da lontano, che dipende dal come lo dici.
Oggi va così.
Vieni a sapere una roba che ti tocca, che era una di quelle che tieni lì nel tuo posticino.
Vieni a sapere una roba che non ci puoi fare niente, ma ti entra dentro.
E non ci puoi fare niente.
Oggi va così. Almeno per ora.
Poi non si può sapere.

Poi arriva una di quelle foto che tu generalmente fai da solo anche senza fotocamera.
E rimani un po’ a bocca aperta.
E allora non è proprio mica un caso.

Ci sono nuvole in cielo ad attendere.
Che qualcosa dietro sembra ci sia per davvero.

Ciao Giorgio.

E ora silenzio, almeno per un attimo.

Ci sono nuvole in cielo il quattro di luglio…