martedì 20 gennaio 2015

Rappresentazioni familiari, e quel che porti con te

Ho letto questo testo con apparente difficoltà, infatti spesso, girando le pagine e gli argomenti, mi sono trovato davvero contrariato, cioè per meglio esprimermi, proprio perplesso.
Credo di essere troppo sensibile davanti a certi argomenti, ne rimango affascinato, e mi interesso, che mi luccicano gli occhi, ma con la volontà di rimanerci lontano almeno un passo, una distanza di braccio, o forse più.
Mi è piaciuto indagare, e farmene un’idea, e ben sapendo che nemmeno chi pratica molto ci capisce tutto e del tutto, rimango comunque a una certa distanza, che non ho sentito di farmene prendere del tutto. Certo non disdegno l’ascolto, e o la partecipazione, ma sento ancora quell’alone di incredulità addosso, e per quanto mi senta avvolto dalla curiosità muovo passi timorosi, forse lacunosi, comunque uno alla volta, per alcuni troppo pochi (?), domandandomi sempre da quale punto sono partito e dove credo stia andando.
Fatto sta che sollecitato da alcune persone ho voluto leggere queste pagine. Dove ho trovato molto di buono e qualcosa di incerto, altro di poco interessante, altro ancora da indagare se le cose della vita girassero in un modo, e sempre col dubbio della domanda, che non sarà mai l’ultima, perché alla fine non posso e non voglio fermare il criceto che mi corre appresso.
Ora, cercando di fare ordine, il che è tutto dire, voglio appuntarmi come mi è consueto alcune robe, quelle più o meno mie, in merito alle Rappresentazioni Familiari, e altre costellazioni.

Gli argomenti sono molteplici, perché la famiglia di una persona si dice non sia esclusivamente quella in cui vive, prima coi genitori successivamente una propria altrove, giacché queste forme familiari assorbono anche l’origine propria, del e nel passato, dal più diretto al più remoto. Tuttavia per me la famiglia non è essenzialmente solo quella dell’anagrafe, che io già mi appunto prima di tutto gli amici, e non sto qui a esprimere la mia idea di amicizia.
Per le famiglie, comunque, viene spiegato che quando i genitori si macchiano di gravi colpe nei confronti dei figli, perdono i loro diritti di genitori. Si devono allontanare dai propri figli, e questi li devono lasciarli andare, e questo caso, per quanto essenziale e vero, nella vita di sempre non è semplice, né da parte dei genitori né tanto meno da parte dei figli. Mi sento coinvolto e toccato quando viene spiegato che i bimbi che non passano tempo coi genitori, e quanti ce ne sono?, sentono questa mancanza con frustrazione e abbandono e si immagina che questi, i bimbi, una volta grandi avranno difficoltà ad abbandonarsi in maniera completa all’amore per il proprio partner, vivendola con rabbia, (mica sempre vero!, e ne ho le prove). Si conclude spiegando che la rabbia è solo un surrogato: il vero sentimento è il bisogno di contatto con gli altri. Anche qui dissento, anche per esperienza personale, e mi domando quale possa essere l’eventuale componente di una coppia che non voglia il contatto?, cosa ci sia di più bello di un bell’abbraccio?, pieno di sentimento, per esempio; anzi la faccenda andrebbe vista anche fuori da una coppia, per esempio pensando all’abbraccio dei componenti di una squadra, sportiva o di lavoro che sia, un gruppo di amici, coi compagni di viaggio o di vacanza.
Si parla di amore, e di rapporto di coppia coi figli, e si spiega l’assumersi la responsabilità della propria vita, e il valore che le si dà. Tra la coppia, e tra le persone in genere più ampiamente osservando, viene espresso un concetto che mi piace tanto: noi stessi ci sentiamo insicuri, a volte feriamo gli altri o ne siamo feriti, e coraggiosamente continuiamo a provare. Perché è ormai certo che si deve sempre provare, e ancora e ancora, e non c’è altro da voler insegnare a chi deve capire.
Poi si espone che la felicità in una relazione dipende dal libero scambio tra il dare ed il ricevere. Uno scambio limitato produce un misero guadagno. Più lo scambio è vasto, più profonda è la felicità. Questo però ha un grosso svantaggio: lega ancora di più. Chi vuole la libertà deve dare e prendere solo in piccole quantità, e lasciarsi andare solo in maniera limitata. Prima parte da sottoscrivere. La seconda parte mooooooolto meno, “Chi vuole la libertà deve dare e prendere solo in piccole quantità, e lasciarsi andare solo in maniera limitata” a mio avviso è restrittivo ai massimi termini, se si parla d’amore non si devono trattare dei limiti, se si parla d’amore si dà, si scambia, nella speranza di ricevere: ecco lo scambio d’amore. Ciò non toglie quanto sia reale che si può dare solo quanto l’altro è disposto a ricevere, e per quando si è in grado di dare. Se si dà più di quanto l’altro sia pronto a ricevere, il partner si sentirà oppresso, sarà ancor meno disposto a dare e lo squilibrio risultante aumenterà sempre di più. Appunto, perché altrimenti si sbilancia il tutto, e se una roba si sbilancia poi cade, rotola, ed è un casino ritirarla su.
Molto educante che in un rapporto di coppia, anche se questo finisce, è importante che i due partner si rispettino. Questo rispetto è indispensabile dopo la separazione, specie se si hanno figli, altrimenti essi diventano vittime delle tensioni tra i genitori. Per esperienza personale, (fa te!). E volendo si dovrebbe essere in grado di dire certe robe, che spesso vengono pensate ma trattenute, che spesso si danno per scontate ma che non lo sono, tipo: “Ti ringrazio per quello che ho ricevuto da te. Puoi tenerti quello che hai ricevuto da me” e “Mi assumo la mia parte di responsabilità per il fallimento della nostra unione, e ti lascio la tua parte di responsabilità per questo fallimento”.
Come diceva una nonna: una noce non fa mai rumore da sola. Ecco. Perché altrimenti poi la persona che non riceve i pensieri e le parole poi se ne fa un’idea personale che spesso non rispecchia la realtà del pensiero dell’altro. Questo dovrebbe valere per tutti i gruppi di cui si fa parte, sportivi, lavorativi, di amicizia. Volendo, e riuscendo, si dovrebbe sempre dire la propria idea, il proprio pensiero. Volendo, riuscendo.
Si racconta anche che quando un figlio deve scegliere tra un genitore e l’altro, si trova di fronte ad un dilemma insolubile. Chi da bambino è stato costretto a farlo, da adulto troverà difficile prendere qualunque decisione. Infatti è vero, mai chiedere a un figlio di scegliere tra una o l’altro genitore, che è pure una domanda ignobile, giacché un figlio non sceglierà mai né l’uno né l’altra, finanche ad arrivare a scegliere se stesso. Il fatto che poi un figlio costretto a fare una scelta così avrà difficoltà nelle scelte della vita mi lascia perplesso, che io da buon cagadubbi mi chiedo non sia essenzialmente questa costrizione a causargli difficoltà future, proprio perché se si arriva a costringere a tale risposta un figlio non voglio immaginare quali altre costrizioni possano essere imposte.
Si espone che quando una persona è arrabbiata con un'altra vive una sorta di blocco e fino a quando sono arrabbiato non sento il dolore e la perdita. Solo quando lascio andare la rabbia e smetto di incolpare me stesso o l’altro, posso affrontare il dolore e la perdita. La verità è che l’arrabbiatura è già un punto di partenza sbagliato, quindi tutto quello che ne segue può essere problematico, quindi anche valutare e affrontare il dolore che si prova rimane un problema e il vuoto creato da un evento di contrasto risulta difficile.
E’ possibile che certi eventi intralcino il cammino di una coppia in modo mai apparente, fino a fare inciampare il cammino, e solo quando si chiarisce che c’è stato un aborto e i partner lo riconoscono, è possibile la riconciliazione. Che come tutte, dalle più alte alle più basse, dalle più grandi alle più piccine, le robe in una coppia vanno parlate spiegate e non trattenute, qualunque sia quell’argomento e qualunque cosa sarà dopo.
Mi piace molto il …chi segue la corrente non ne decide la direzione. Si limita a seguirla. E ci sono alcune domande che portano a una sorta di sentenza: in un rapporto se starò attento a certe cose otterrò certi risultati. Ma questa è già una specie di controllo che è in contraddizione con il concetto di relazione. Come dare torto a tanta verità?
Rimanendo in tema di relazioni, viene spiegato che uomo e donna sono diversi e pertanto non arriveranno mai a conoscersi completamente. Questo li affascina, ma li spaventa anche un po’. Chi ha paura può facilmente diventare aggressivo per difendersi. Certo, la paura porta o a mortificarsi in un angolo, o ad affrontare tutto con aggressione. Ma si dovrebbe trovare una formula dove la relazione non sia solo tra uomo e donna, ma anche diversamente tra adulto e bambino, tra colleghi, tra uomo e uomo o donna e donna, tra nonna e mamma, tra figlio e papà. Si dovrebbe. Che le relazioni sono ovunque.
Un’altra parentesi tra un lui e una lei è illustrata con quando tu e tua moglie vi siete decisi per la fecondazione artificiale tramite un altro uomo, il vostro matrimonio è finito. Era una conseguenza inevitabile. E a me nascono immagini eventuali, e sento addosso l’importanza di certe scelte, da non fare così tanto per così.
Viene raccontato che chi continua a respingere e reprimere un sentimento, crea una sgradevole tensione interiore, e che “nessun uomo è un’isola”, e dire “…tu sei uno di noi” a qualcuno che appartiene a un gruppo fa sentire questo qualcuno più sicuro di sé.
E’ toccante il passaggio L’amore che lega un bambino alla sua famiglia è immenso. Un bambino è pronto a sacrificare la propria vita senza esitazione, se ciò è necessario per la sua famiglia. Vuole appartenere ad essa con tutte le fibre del suo essere; pertanto, condivide il destino e il dolore degli altri membri della famiglia. Mi emoziono e mi rivedo quando ero piccolo ad osservare molto i grandi, in casa, a scuola, al parco, per la strada.
Viene trattato, ovviamente, il concetto dell’aldilà e dei propri defunti, che facenti parte dell’insieme famigliare portano la loro influenza nelle generazioni successive. A un certo punto mi domando “perché non siamo in grado di comunicare da soli in qualche modo coi nostri defunti?? Che cos’è allora l’andare al cimitero o osservare una foto-santino?”, proprio mentre si esalta il concetto e l’importanza sopracitati.
Ho avuto l’impressione che solo con la rappresentazione famigliare si possa avere un rapporto con chi, vero o no, mi ha influenzato anzi mi sta influenzando.
Allora mi sorgono un sacco di dubbi, che spesso rimangono lì. Ma nemmeno tanto.
Si dice che noi vogliamo consigli che ci guidino, e cerchiamo verità stabili. Nessuno ama l’incertezza ed il dubbio. Credo che dipenda dalle persone, molto dai punti di vista, e dalle occasioni, e dalle scelte che si fanno; ché ci sono luoghi e momenti che è viva l’incertezza, mette quel pepe che serve, mentre altri che è meglio evitarla. Come altre volte è tutto corretto, ma anche il contrario.
Allora mi sovviene che proprio perché si impone un punto di vista potrebbe non essere del tutto reale ciò che si vede o vive nelle rappresentazioni. Più o meno come quando si segue ciecamente una dottrina o una religione: se queste non accettano il mio dubbio, e le mie perplessità, le sento opprimenti e poco adatte.
Nelle rappresentazioni ci sono il partecipante e i rappresentanti, questi vivono le costellazioni in prima persona; viene puntualizzato, poi, che lo stesso partecipante potrebbe vedere, se solo volesse. La verità è scioccante solo per chi non desidera vedere la realtà.
E come tante realtà vorrei viverle, per quanto possibile, a modo mio.
E mi piace molto quando si specifica che io guardo sempre come se fosse la prima volta, perché la verità di un dato momento viene sostituita da quella del momento successivo. Quindi ha davvero ragione quel tipo che canta che vuole “che ogni attimo sia sempre meglio di quello passato”, ma questa è un’altra storia.
Rimango perplesso con “Questo o quello” è il principio su cui ci basiamo, NON “Sia questo, che quello”. Contraddirsi è proibito e considerato segno di debolezza di carattere…, non che non condivida, anzi, il principio espresso evita discussioni, prevede una scelta ben precisa, ma non sempre nella vita è la cosa giusta o migliore.
E la debolezza di carattere potrebbe non essere tutta legata alla contraddizione, potrebbe esserci ben altro sotto, o sopra.


Questi sono solo pochi appunti, le orecchie in basso nelle pagine, giacché in alto ce n’erano già, sono molte di più.
E molte sono anche le volte che mi sono fermato a riflettere su quanto appena letto, e su quanto della mia vita, prima, dopo e durante.
L’argomento è troppo complesso per essere eviscerato bene qui in mezzo alla rete.
Meglio leggere. Farsi un’idea. Partecipare. Farsi un’idea.
A me è capitato, ed ho provato a descriverla qui Costellazioni, la famiglia, gli appunti


Oggi di quei giorni ricordo nitide alcune immagini che tengo qui da me.
Se è vero che ero novello, è pur vero che so quello che sento, che se mi propongo solitamente è perché lo sento forte, che altrimenti meglio lasciare perdere e rimanere defilati.
Quindi non ho ancora capito, e non ho ancora digerito, per quale motivo la terapeuta mi abbia imposto una scelta di rappresentante, giacché io sentivo in un modo, come tante volte inspiegabile; mi sono sentito forzato, e quel lato della costellazione non mi è andata giù. E rimane lì. Non mi è sembrata mia, o non mia del tutto. E, rimanendo in tema di sensazioni e di sentire, non capisco come mai la terapeuta in seguito a una costellazione che non era la mia emettesse una sorta di verdetto guardando fisso negli occhi miei anziché la partecipante; dal mio punto di vista io non dovevo essere coinvolto, proprio perché la mia figura non era stata rappresentata; c’era rappresentato una sorta di generico, quindi il tutto si svolgeva in un indefinito e ipotetico mio io; e la distrazione, perché questa è stata, della terapeuta mi lascia il dubbio della domanda principale, iniziale e finale: chi mi garantisce che tutto sia svolto senza speculazioni, senza ingerenze, che tutto si svolga in maniera limpida e non limitata da punti di vista del tutto personali?
Io stesso all’inizio avevo una considerazione dei potenziali rappresentanti come me che alla fine era ben diversa. Alla fine non ero più vergine di loro. Quindi, assieme a tutto il buono che ho raccolto quel giorno, mi sono portato con me anche dei dubbi, e le mie solite perplessità.
Non voglio mica asserire che sia tutto sbagliato, ancorché io stesso ho rappresentato, e sentito, sentito forte, e ho pure sentito di essere me stesso tutto, di sentire di essere così e non in altro modo (e sono stato pure richiamato a posteriori), che certe robe le ho vissute in prima persona.

Rimango della mia idea. Sarà per poca convinzione, forse.
Con certe cose si deve andare cauti.
Però sono curioso. Molto.

E spero tanto non ci siano persone plagiate dall’argomento.
Lo spero davvero.

(tutto questo è pur solo quello che ho capito, sentito, assorbito, io. Niente di più)

Bertold Ulsamer, Senza radici non si vola - La terapia sistemica di Bert Hellinger, Ed. Crisalide (Collana di Psicologia)



giovedì 15 gennaio 2015

Giorgio e la storia delle sue canzoni, ma non solo

D’urgenza avevo espresso il mio sentire qui: Nuvole il quattro di luglio

E quella roba nel mio posticino era un cofanetto ricevuto in dono nelle feste invernali di tre anni fa. 
E lì era rimasto.
Per la verità i cd con le canzoni li ho ascoltati subito. E mi erano pure piaciuti.
Poi altre robe erano girate in quell’inverno ed avevo lasciato tutto lì in quel posticino. Assieme a tanta troppa altra roba.
Curioso la scorsa primavera, forse era aprile, ascoltai di nuovo quei cd mai più ascoltati.
E colpirono, colpirono molto.
Ero in un bel periodo per sentire a dovere.
E quella malinconia arrivò precisa dove doveva arrivare.
E ascoltai ancora. E rimisi a posto.
Solo sfogliai velocemente il libro, curioso di leggere alcuni passi.
Una botta. Alcune righe. Precise!

Non ero pronto. Non mi sentivo pronto. E lasciai lì.
E tutto rimase appiccicato, come una graffetta che tiene stretto l’appunto, come uno scarabocchio appena abbozzato, come un’idea appesa alla porta della cucina.
Poi le cose della vita ti fanno capire che quando capita qualcosa c’è pur sempre un perché, e malauguratamente lo trovai quel quattro di luglio, con quella notizia, con quella foto.
E ho letto. Ho letto molto. E ho ascoltato. E sentito. Tutto.
E ho riletto. E ho interrotto. E ho ascoltato interrompendo e rileggendo.
E ho sentito, forte, lì in quel posto.
E ho emozionato.
Non è corretto dire o scrivere così, pazienza.
Io l’ho fatto. Quindi posso scriverlo.
E allora ho piegato le orecchie, e pensare che mi insegnarono a non farlo, e ho sottolineato quel che sentivo, e pensare che mi insegnarono che non era bene farlo a un libro di lettura.
Quindi come faccio a non riportare almeno un appunto? O due…

Ecco che Giorgio racconta che non si è mai arreso perché in ogni momento difficile prevaleva la curiosità di sapere come sarebbe andata a finire. Scrivendo di arte, spiegando che la canzone necessita di un tempo di ascolto, e un libro di un tempo di lettura, un film un tempo di visione, un quadro è un flash immediato, ha ragione, concludendo poi che la cosa sconvolgente è l’ennesima conferma di quanto sia bello inventarsi ogni volta una nuova dichiarazione d’amore. Emozione! E rimango affascinato quando racconta del suo borgo (così mi piace chiamarlo) e scrive che certe incomprensioni furono dipese dal suo atteggiamento verso la vita, da una sorta di golosità che rasentava la bulimia per le avventure, i viaggi, le scoperte. E scrive pure una Lettera a un figlio inventato: Uno di quei giorni in cui la paura della solitudine pare avere un’ottima mira, si siede al piano e scrive una canzone per una persona che non lo ha mai capito. Succede. E io ad appuntarmi “Sarà un caso?!? Eh? Sarà mica un caso??! Mah…” Fa sognare descrivendo un locale americano, dove le strade sono dritte come quelle che portano al loro sogno, concludendo un capoverso con anche se il locale era pieno di gente, la ragazza (cameriera, ndr) si ferma qualche istante a scambiare due chiacchiere. Lei è da applausi, e quei pochi istanti per lui che ha chiacchierato con lei sono senz’altro apparsi come infiniti, da sogno, appunto. Una parte romantica e un po’ malinconica è avvolta da fumo di sigarette, e parlando di sfide, approvo pienamente che sarà sempre con nessuna facilitazione, nessuna concessione, nessuno sconto. Tutti gli insegnamenti, tutto l’aiuto possibile, tutto l’affetto del mondo, ma la vittoria è una cosa che va conquistata, non ricevuta in dono. Con suo padre non ha mai vinto. Arriva un incontro, con una ragazza, e col pathos che sale senza rendersene conto si appoggia contro il suo petto e nello stesso modo accetta le sue braccia intorno alle spalle, mentre respira il suo profumo misto al suo odore di uomo e ancora pensa che tuti e due sanno di buono, che poi lui vorrebbe “solo” un cinema con lei, la sera dopo, solo se le va.
Alla fine i Ringraziamenti sono un’ovazione, per me, mentre li leggevo sentivo gli applausi e le persone lettrici alzarsi in piedi e rendere omaggio a Giorgio.
Che conclude:


NEL CAMPO STERMINATO DEL MIO AFFETTO,
OGNUNO E’ UNA FRASE, OGNUNO E’ UNA CANZONE, OGNUNO E’ UN ROMANZO.


(Il maiuscolo, e il grassetto, l’ho voluto io, solo qui)



Giorgio Faletti, Da quando a Ora, Ed. Einaudi, un libro due cd


martedì 13 gennaio 2015

Charlie è Brown e Chaplin

Sì veh! Che io lo voglia o no ho pensato per primi a loro. A un fumetto e a un genio della recitazione. E non ho la minima intenzione di giudicare o commentare il loro operato nei loro campi.
Che come tante cose non mi appartengono, e se anche ogni tanto di recente leggo gli Sturmtruppen o vado una volta di più al cinema o mi blocco davanti alla tv che trasmette un bel film, non sono certo in grado di dire è fatto bene o fatto male o.
Posso solo dire che mi piace o meno, che non capisco (??) o meno, che è difficile (per me!!) o meno. Ma non sono certo in grado di giudicare.
Perché, a sentire bene a destra e a manca, e a leggere quasi solo esclusivamente qui dentro dritto di fronte a me, ci sono tante persone che hanno giudicato.
Ma passo oltre, e mi limito a raccontare per quel che so e che posso, la mia idea.
Nell’immediato avevo pensato a Brown e Chaplin ma mi domandavo quasi vano, visto che non avevo ancora raccolta la notizia dai media, cosa mai certi miei contatti avessero a che vedere o fare con Charlie. E quale dei due?
Ecco che sono bastati un suggerimento ed alcuni clic posti nei punti giusti, ed è bastato abbassare il volume delle casse togliere il cd ed accendere la radio, che la notizia, la brutta notizia era arrivata anche a me.
Lì per lì mi sono pure chiesto come mai quei contatti scrivessero “io sono” e mi rispondevo senza rispondermi realmente che “io non sono” e che in realtà “io sono io”. E mi basta e avanza. Coi pregi e coi difetti.
Però l’accaduto ha del grave. Molto grave. E non solo nel senso di pesantezza.
Quindi, da me, nel mio piccolo, ho inteso a modo mio che cosa volesse dire “io sono” e cosa volesse dire impugnare una matita.
Matita fragile, lo si dice pure ai bimbi, che credono sia indistruttibile e invece no, che quel giorno era stata spezzata da un moto come minimo di prepotenza.
Quindi ho espresso, per quel che potevo, la mia opinione nel mezzo media che da qualche tempo mi accompagna un po’:

                        “Perché ho l’impressione che troppi stiano già parlando troppo?
                        Perplesso rimango in silenzio.”

 


Niente di che. Solo un’idea, tutta mia, che non ci stavo mica capendo molto.
Solo una roba era certa: quella libertà di opinione, peraltro discutibile, e di espressione, veniva lesa.
E a me che qui esprimo quello che penso e quello che sono, o credo di essere, è venuto a mancare qualcosa.
Ho immaginato se io scrivessi una qualsiasi opinione, mia, che andasse contro il pensiero di persone a me sconosciute personalmente, e se queste la prendessero male e non venissero da me a chiedere spiegazioni, o non andassero dalle autorità a chiedere di essere tutelati, come la metterei la questione?, dove rifugerei le mie parole che in qualche modo potrebbero aver leso loro?, come mi comporterei davanti ad “azioni” che non condivido?
Ecco. Questo, credo, mi è passato per la testa quella notte.

I giorni successivi sono stati colmi e stracolmi di commenti e opinioni. E credo di capirle tutte. Credo. Nel senso che credo abbiano ragione quelli che sono convinti che inneggiare “io sono” sia corretto, e credo che abbiano ragione anche quelli che non hanno voluto iscriversi al “io sono”.
Libertà di opinione prima di tutto.
Ma alla fine si deve andare oltre.
E’ stato un attentato. Violento. Che gli attentatori siano di su o di giù non importa.
E’ una violenza. E la violenza non va mai bene.
Lascio a chi è capace e o del mestiere capire indagare del perché e del per come sia accaduto ciò.
E sono certo sia molto limitativo tutto quello che è stato ipotizzato nei media in questi giorni.
Che le ragioni ben radicate sono altrove.
Che sono dove sono le motivazioni di tutte le guerre di questo mondo.

E sono là!, dove non c’è mediazione ma c’è arroganza, e arrivismo, dove non c’è dialogo ma solo voci gridate, e braccia (?) tese ad offendere.

La grande manifestazione del popolo è stata commovente.
Sin dal primo giorno, nonostante il concreto pericolo immediato, il popolo, le persone “normali”, le ho viste scendere per strada a chiedere di non offendere più, e a mostrare con la propria faccia la solidarietà personale alle vittime.
S’è fatto gruppo. Molto gruppo. E questa è cosa buona. Ma anche no.
Ed ho pure visto chi ha il potere (!!!??!!!), eccolo qui, dichiarare robe, commentare sdegnato, scendere in strada. Insieme, un sacco di potere tutto insieme.
MA sono per poche centinaia di metri. SOLO!
Perché quei ragazzi con le matite in mano ormai spezzate di metri ne hanno percorsi ben di più.
No, no. Troppi pochi quei metri. Mi dispiace non condivido.
Però, in effetti, s’è fatto gruppo. Molto gruppo. E questa è cosa buona. Ma anche no.

L’emozione di quelle immagini viste in tv, col vento a spazzare via le tensioni dei giorni passati, è stata invadente, positivamente invadente.

Ora, però, da buon cagacazzo quale sono, mi sorgono altre domande:
-       Tutte quelle persone, di potere o meno, avranno il coraggio singolarmente di impugnare davvero la propria matita?
-       Tutte quelle persone, di potere o meno, che si sono dichiarate “io sono”, si comporteranno vere per davvero?
-       Tutte quelle persone, di potere o meno, che hanno gridato all’ingiustizia, e sdegnate alla violenza, lo faranno anche ogni giorno a venire nel loro piccolo personale?
-       Il genitore educherà alla tolleranza, tutta la tolleranza, i propri figli?
-       L’educatore insegnerà ai giovani di ascoltare prima di pretendere parola?
E poi un’eco, così, giusto per ricordare che delle robe le avevano già dette, e le avevano già pensate, che per certi versi è sempre la solita storia…

Io non lo so chi c'ha ragione e chi no, se è una questione di etnia, di economia, oppure solo pazzia: difficile saperlo.
Quello che so è che non è fantasia e che nessuno c'ha ragione, e così sia, e pochi mesi ad un giro di boa per voi così moderno…
C'era una volta la mia vita, c'era una volta la mia casa, c'era una volta e voglio che sia ancora.
E voglio il nome di chi si impegna a fare i conti con la propria vergogna. Dormite pure voi che avete ancora sogni, sogni, sogni…
C'era una volta un aeroplano, un militare americano c'era una volta il gioco di un bambino.
E voglio i nomi di chi ha mentito di chi ha parlato di una guerra giusta, io non le lancio più le vostre sante bombe, bombe, bombe, bombe, BOMBE!
Io dico sì, dico si può sapere convivere, è dura già lo so, ma per questo il compromesso è la strada del mio crescere.
E dico sì al dialogo perché la pace è l'unica vittoria l'unico gesto in ogni senso che dà un peso al nostro vivere, vivere, vivere.
Io dico sì, dico si può, cercare pace è l'unica vittoria, l'unico gesto in ogni senso che darà forza al nostro vivere.
…da Il mio nome è mai più, LigaJovaPelù, 1999

Sul retro della confezione veniva scritto: “A pochi mesi dal "giro" di millennio la nostra cosiddetta società "civile"conta al proprio interno 51 guerre in corso. Allo stesso tempo essere contro la guerra
(qualsiasi guerra) sembra voler dire assumere una posizione politica. Be' vogliamo essere liberi di sentirci oltre qualsiasi posizione del genere affermando che, per noi, non ci sarà mai un motivo valido per nessuna guerra”. Luciano, Piero, Lorenzo.



E nessuno parla più dell’attentato al mercato di quei giorni, almeno così sembra…