Ho cercato di affrontarlo appena ne ho avuta la possibilità,
proprio come ho imparato due anni fa ascoltando bene certe canzoni di un certo
Lui.
In realtà ho approfittato di un giro fuori dalle solite tracce e
mi sono preso una buona mezz’ora abbondante solo per me, troppo poco per realizzare
tutto quello nella mente.
E troppo poche queste righe per esprimere quello che mi gira qui
dentro, ed anche un po’ fuori.
Dunque mi sono incamminato sulla mia strada, per alcune che
conosco e per altre che mai avevo percorso. Fotocamera alla mano, ho cercato di
bloccare in un clic una sensazione, lieve ma pesante, di quanto andavo incontro,
sempre con tanto rispetto, e in rigoroso silenzio.
Appena raggiunto il lungo viale della stazione ferroviaria mi sono
sentito inseguito, non so da chi o da cosa, ma non mi sono sentito esattamente solo.
Sì certo, a quell’ora del mezzo pomeriggio c’era gente in giro, ma non erano quelle
poche persone a inseguirmi.
Ho visto come un luogo di fonte di energia e chiasso e giochi e
sorrisi e prime esperienze possa essere male percepito quando avvolto e
ricoperto da tutte quelle foglie che l’autunno ha voluto donargli.
Ho osservato come la porta che da sempre mi ha dato il benvenuto
sia diversa da quella che sbadatamente osservavo in passato, e purtroppo l’ho
notata storta, in bilico, non in bolla. E si sa bene che se uno non è in bolla
è meglio che lo si lasci stare...
Ho scrutato le strade che nel poco tempo a disposizione ho potuto
percorrere, piccoli angoli di vita che si riprende.
Ferite ancora aperte ancora troppo grandi, forse.
Nel mezzo delle strette vie ho ascoltato molto volentieri i rumori
di piccoli lavori in corso, mazzuole battute su scalpelli a togliere le ferite
e certi dolori.
Sotto portici limitati ho felicemente rivisto botteghe, anche se
ancora vuote ma pronte a riprendersi.
Ho camminato quasi sulla piazza, limitato solo dalle transenne.
E mi sentivo ancora inseguito.
Peccato non poter assaporare ancora una volta il caffè al bar del teatro.
Sono passato dalla parte di là, dove andavo sempre poco, a parte rare
occasioni recenti.
E di là mi si è fermato il cuore, almeno per un po’.
Poi rientro veloce, sempre con lo sguardo all’insù, sempre a
osservare ogni ombra, ogni angolo davanti a me.
Ho letto una scritta rossoblù in uno striscione che sembra da
ultrà, e credo e spero nel senso non violento del termine (il quale, in
effetti, violento non è, sono le persone che ne danno eventualmente vita ad esserlo), e molto
volentieri la riporto, ed è tutta roba loro: “Orgogliosi delle nostre
tradizioni, fieri della nostra storia, per amore della nostra terra!!! Forza
Emilia!!!”.
Forse esposto a Bologna in giugno o a Reggio Emilia in settembre.
Mi guardo un po’ attorno, sento passi dietro di me, ma i
carabinieri sono fermi nella loro posizione, ci sono alcune auto che girano lente
sulle vie più lontane verso il supermercato, ma quelle non muovono passi.
Non sono solo qui su queste vie in questi miei passi, non sono
solo e lo so bene, sono alcuni mesi che lo so.
Alla fine, torno da dove sono venuto, verso la meta reale di
questo pomeriggio uggioso anche se stranamente assolato.
Alla fine torno allo stadio dove i miracoli si avverano,
spensierati e ignari di tutto quello attorno.
Alla fine, dall’alto della tribuna ho visto quei passi di pochi
momenti prima, fermi immobili nei fantasmi delle tende che fino a pochi mesi fa
facevano da casa.
E lui, il mostro, muovere passi spero lontano.
Ciao Creva, come ti chiamo da qua, torna te stessa come sei sempre
stata.
Io, il lampadario, e quel soprammobile, li osservo ancora spesso.