Ieri
sera ho visto terminare le Olimpiadi di Londra. Già, proprio ieri sera, che era
già ben settembre.
Le
avevo viste cominciare a luglio, con una cerimonia mica da ridere, un sacco di
rumore e un’enormità di colori a raccontare la storia di una nazione e forsanche
di più. Pure la Regina in persona si era disturbata per presenziare, arrivando
a lanciarsi col paracadute per non fare tardi all’appuntamento.
Poi,
da quel giorno, pochi sono stati i giorni di assenza di sport alla mia tv.
Distrattamente ho assistito a un sacco di sport, felicitandomi per i nostri
colori issati sul pennone più alto.
Poi,
a settembre, quindi nemmeno troppi giorni fa, ho cominciato a imbattermi in
emozioni che ho riscoperto molto volentieri, ho visto i sacrifici di tanti
atleti, persone solitamente oppresse da pensieri di vita molto importanti hanno
liberato la loro voglia di vita nelle piscine nelle piste e nei campi da gioco.
Ma
io, che certe cose le penso a modo mio, non capisco perché le chiamino
paralimpiadi. Non capisco perché tengano differenti le due manifestazioni. In fondo,
a guardarci, le piscine erano le stesse, le piste erano le stesse, i prati
erano gli stessi. Le categorie differenziavano diversi tipi di difficoltà,
niente di più.
Non
capisco perché non se ne possa giocare un’unica intera grande che possa
abbracciare tutti gli atleti.
Se
i burocrati, i dirigenti, avessero anche solo un minimo ricevuto quello che ho
ricevuto io in merito alle emozioni, se avessero un minimo di coglioni, le prossime
sarebbero davvero da giocare tutti insieme, con i sorrisi nei visi di atleti
contenti di partecipare.
Ieri
sera ho visto finire le Olimpiadi, è stata una bellissima cerimonia di
chiusura, sono contento abbiano salutato i “game maker”, così vicini agli
atleti, i coldplay hanno suonato a dovere, e balletti hanno riempito i prati, i
colori gli spalti, e le buone speranze, spero, gli animi delle persone.
Bello,
alla prossima, su quella spiaggia calda…